Opinione

Le diverse tipologie di risposta immunitaria al Covid

Si è ipotizzato che soggetti immuni al virus in passato siano entrati in contatto con virus simili e posseggano di conseguenza degli anticorpi derivanti da tali infezioni pregresse che “cross reagiscono”, cioè riconoscono il Sars-Cov-2 e sono in grado di combatterlo. Per comprendere appieno le caratteristiche patogenetiche dell’infezione Covid è importante analizzare le diverse tipologie della risposta immunitaria, classicamente divisa in immunità innata, non specifica e a rapido intervento (ore dopo l’infezione), e immunità acquisita (adattativa), costituita da fattori umorali (anticorpi) e cellulari altamente specifici verso l’agente infettivo e i suoi componenti molecolari (antigeni), ma che devono essere selezionati ed espandersi per essere funzionalmente attivi, e quindi sono presenti giorni o un paio di settimane dopo l’infezione virale.

È importante, tuttavia, sottolineare che immunità innata e adattativa sono sempre in collaborazione ai fini del controllo e, se possibile, dell’eliminazione di detti agenti. E’ utile considerare il ruolo dell’immunità innata nella difesa antivirale. Questa si basa sul riconoscimento dei componenti virali da parte di molecole e cellule, per lo più di natura fagocitaria, che sono costitutivamente espresse nell’organismo ospite e in grado quindi di agire rapidamente contro l’agente virale. Studi recenti hanno dimostrato che la proteina spike del virus viene riconosciuta da vari recettori e componenti di questa immunità, alcuni dei quali, per esempio la mannose-binding lectin (MBL), possono riconoscere detta proteina a causa dei residui di mannosio che essa possiede, legarvisi e così impedire la capacità di ingresso del virus nelle cellule dell’ospite. Ma appare importante anche la risposta mediata da membri della famiglia degli interferoni tipo 1 e tipo 3 ad attività promovente la funzione di linfociti dell’immunità innata nell’eliminazione delle cellule infettate dal virus.

In armonia e a sostegno dell’importanza di questa difesa innata nel controllo dell’infezione ci sono importanti dati recenti che dimostrano come i soggetti con errori genetici nella produzione di queste citochine possono essere affetti da forme di COVID-19 con decorso clinico ingravescente e prognosi sfavorevole. E’ stato evidenziato, inoltre, un difetto di produzione degli interferoni (IFN) di tipo I studiando oltre 700 pazienti con forme gravi di COVID-19. Questa ridotta produzione è associata nel 3-4% di forme gravi a mutazioni genetiche specifiche che diminuiscono la produzione di IFN di tipo I e nel 10-11% dei casi alla presenza di autoanticorpi. Per questo motivo si osserva una qualche alterazione di IFN di tipo I nel 15% di forme gravi di COVID-19, il che ha indotto l’impiego di IFN per il trattamento di forme gravi di COVID-19, anche se i risultati al momento non sono stati conclusivi.

Recentemente uno studio ha identificato nel sangue di alcuni soggetti la molecola MBL, che legandosi al virus sarebbe in grado di impedirgli di entrare nelle cellule e quindi di dare il via all’infezione. È emerso anche che i polimorfismi genici del locus MBL2 si associano a una forma più grave di malattia. Oltre a questa molecola esistono anche altri meccanismi di protezione legati all’immunità naturale. Oltre al già citato interferone, la presenza di pentrassine (PTX3) si correla con l’insorgenza di forme gravi di malattia COVID-19. Per quanto riguarda l’immunità acquisita o adattativa, classica è la distinzione fra risposta umorale e risposta cellulare, che l’organismo produce nei confronti di questo virus. In risposta al virus SARS-CoV-2 l’organismo produce anticorpi diretti verso le glicoproteine di superficie e in particolare verso lo Spike e il nucleocapside, che sono le strutture più studiate. Questi anticorpi hanno la capacità di impedire l’entrata del virus nelle cellule attraverso il recettore ACE2 (angiotensin converting enzyme 2).

Prof. Roberto Cauda

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