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Sommersi ma testimoni: Roma ricorda il rastrellamento del Ghetto

Era il 16 ottobre 1943, un sabato. Giorno festivo per gli ebrei. Il che, per loro, significava quasi certamente essere a casa per trascorrere il riposo in famiglia. Per la polizia tedesca, invece, trovarceli in casa, sorprenderli nel momento più impensato. Bastò poco tempo per tingere di nero l’alba di quel sabato, col Portico d’Ottavia spettatore impotente di una delle peggiori operazioni di rastrellamento messe in atto dalle forze naziste in Italia. In tutto 1259 persone, 1023 delle quali caricate su un convoglio e finite ad Auschwitz. Solamente 16 faranno il percorso inverso, i salvati, senza i quali la memoria dei loro concittadini sarebbe forse andata perduta oltre la ferrovia a binario unico in direzione del lager. Dei sommersi è sopravvissuta la memoria, qualche frammento di vita quotidiana, persino delle fotografie. Pezzi di storia e di storie restituiti alle generazioni di oggi, le più giovani delle quali saranno le prime a dover fare i conti col dovere del ricordo senza ascoltare di persona le voci di chi c’era. Ma con la fortuna di avere di fronte a sé una memoria viva.

Quaderni di scuola elementare esposti alla Mostra – Foto © InTerris

I sommersi

La pioggia minaccia di cadere, poi cade davvero. Quasi a voler ricordare l’evento luttuoso e, insieme, la necessità di contribuire, goccia a goccia, alla preservazione del suo ricordo. Ottant’anni esatti dal rastrellamento del Ghetto di Roma, condensati nello spazio espositivo della mostra “I sommersi. Roma, 16 ottobre 1943”, curata dalle ricercatrici Yael Calò e Lia Toaff e allestita in un braccio dei Musei Capitolini di Roma. Inaugurata alla presenza del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, dell’assessore alla Cultura, Miguel Gotor, e dei rappresentanti della Comunità ebraica di Roma, dal Rabbino capo Riccardo Di Segni al presidente Victor Fadlun. Con loro Alessandra di Castro, presidente della Fondazione per il Museo ebraico di Roma, dai cui archivi è iniziata la ricostruzione di una memoria lontana ottant’anni. Nessuno dei salvati è ancora in vita ma è la testimonianza che resta.

Toaff: “Ricordo costante e condiviso”

L’impatto emotivo della mostra è pari solo alle storie che racconta. In piccoli frammenti che, uno accanto all’altro, restituiscono la quotidianità spazzata via nel sabato nero. A volte raccontata dai sommersi stessi, altre volte da documenti, elenchi, liste con depennati i nomi degli uccisi, articoli di giornale e fonogrammi. Perché raccontare i sommersi significa scavare a fondo ma anche, semplicemente, condividere un ricordo: “La ricostruzione della vita di queste persone – ha spiegato a Interris.it Lia Toaff, co-curatrice della mostra – è iniziata dalla documentazione presente nella Fondazione Museo Ebraico, che ci ha permesso di averne nomi e cognomi. Ma niente sarebbe stato possibile senza l’aiuto delle loro famiglie che hanno condiviso memorie, oggetti, storie”.

Lia Toaff © InTerris

“Non è stato semplice – ha proseguito -, perché non sempre le famiglie vogliono raccontare queste storie. Ma è grazie a loro che è stato possibile restituire alla città delle reali testimonianze di vita di coloro che non ce l’hanno fatta”. La maggioranza, più di mille persone. Il cui ricordo è affidato alla coscienza di generazioni nuove, pronte a condividerne la responsabilità: “Come Museo ebraico abbiamo una didattica precisa. Il ricordo costante e condiviso è il nostro strumento migliore, anche per far conoscere ai più giovani le storie che abbiamo avuto modo di ascoltare dai nostri nonni. Tutto passa da qui”.

Scuro il cielo sul Campidoglio, nero come quel sabato. Con il “meditate” di Primo Levi che incombe sulle coscienze dell’oggi, mentre si tenta di mantenere intatta la voce dei testimoni. Voci che vengono fuori senza reali parole, da un appunto su un quaderno o da un foglietto gettato dal camion del rastrellamento sperando che qualcuno potesse raccoglierlo, e magari leggerlo. Qualcuno lo ha fatto.

Damiano Mattana

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