Nei tempi passati, l’utilizzo di metdo naturali – tra cui potevano essere incluse erbe e spezie – era una prassi consolidata. Ad esempio, è stato recentemente scoperto che nell’Europa medievale si usava lo zenzero come ingrediente medicinale per curare la lebbra.
Nell’Europa medievale si usava lo zenzero come ingrediente medicinale per curare la lebbra: la sua presenza è stata individuata per la prima volta nel tartaro dentale appartenente ad antichi resti provenienti dal lebbrosario inglese di Peterborough e la sua scoperta potrebbe rappresentare la più antica evidenza archeologica in Europa dell’uso curativo dello zenzero. Il risultato si deve ad un gruppo di ricercatori italiani e inglesi guidato dall’Università Sapienza di Roma, al quale ha preso parte anche l’Università Tor Vergata.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Scientific Reports, apre nuove prospettive nella ricerca archeologica della medicina medievale. “Lo zenzero è una spezia di origine esotica che in passato era difficile da reperire e quindi particolarmente costosa, era impiegato nella composizione di preparati medicinali poiché si riteneva possedesse proprietà terapeutiche utili per curare diverse malattie e in particolare la lebbra”, spiega Elena Fiorin della Sapienza, che ha guidato lo studio: “Finora però, non era mai stata individuata un’evidenza archeologica dell’uso dello zenzero in associazione con la lebbra”. “Questi risultati sono un’ulteriore conferma di come il tartaro, un deposito di placca dentale mineralizzata che si forma sui denti, ci restituisca dati importantissimi – afferma Emanuela Cristiani della Sapienza, co-autrice dello studio – che ci permettono di ricostruire la dieta, lo stato di salute, e le condizioni di vita delle popolazioni antiche”. Ma non solo: attraverso innovative tecniche di estrazione e sequenziamento del Dna è possibile analizzare il materiale genetico appartenente ai microorganismi che abitavano nel cavo orale degli individui, il cosiddetto microbioma orale. “La matrice minerale del tartaro dentale, infatti – aggiunge Marica Baldoni di Tor Vergata, tra le autrici dello studio – permette al Dna batterico di conservarsi a distanza di secoli e anche millenni“.
Fonte Ansa
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