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Settant'anni senza uno Stato palestinese

Il 29 novembre l'Onu celebra la Giornata Mondiale di Solidarietà con il Popolo Palestinese. La data scelta non è casuale: il 29 novembre del 1947 il Palazzo di vetro adottò la Risoluzione della Partizione, che prevedeva la creazione di uno Stato ebraico e di uno arabo, con Gerusalemme sottoposta a un regime internazionale speciale. Delle due nazioni previste dal provvedimento della Nazioni Unite solo una (Israele) ha visto a luce. Settant'anni e nessuna terra per i palestinesi. Nessuna patria con cui identificarsi. Una situazione che ha esacerbato gli animi, generato conflitti e divisioni, trasformando il Medio Oriente nell'area geopoliticamente più calda del pianeta. Ne abbiamo parlato con Francesca Romana Paci, giornalista della Stampa, per la quale è stata corrispondente da Gerusalemme. 

Dall’Unesco all’Interpol. Cresce il numero di organismi internazionali di cui la Palestina è entrata a far parte. A ciò si aggiungono i 134 Paesi che, dal 1988, hanno riconosciuto l’esistenza di uno Stato palestinese. La soluzione dei due Stati è un po’ più vicina?

“Credo che l’ipotesi 'due popoli due Stati' non sia legata al riconoscimento internazionale della Palestina, anzi, allo stato attualmente critico dei negoziati potrebbe addirittura renderla piu difficile. Voglio dire che Israele, sentendosi isolato, potrebbe irrigidirsi di più e prendere decisioni unilaterali. Ad aprire delle prospettive concrete è invece, almeno sul piano teorico, il rinnovato impegno dei sauditi nel processo di pace, perché un eventuale successo darebbe loro la credibilità regionale di cui hanno oggi grande bisogno.” 

Quali sono gli ostacoli lungo la strada verso uno Stato palestinese?

“La lista è lunghissima. C’è stato un momento, nel 2011, in cui ho creduto che le primavere arabe distogliessero popoli e regimi della regione dal conflitto israelo-palestinese rendendo possibile una soluzione (in assenza di pressioni esterne). Non è stato cosi. Le cause sono molte, tutte in parte concatenate: le divisioni dei palestinesi, l’avanzata della destra israliana, la sfiducia di entrambi i popoli in una convivenza pacifica al punto da essere tentati dallo status quo (i palestinesi sperando un giorno nella vittoria demografica), la confessionalizzazione del conflitto, l’avvento dell’era Trump con tutte le imprevedibilità del caso”.

La recente riconciliazione tra Hamas e Fatah che contributo può dare?

“E' un punto di partenza importante. I palestinesi divisi erano piu deboli nel negoziare e prestavano il fianco all’obiezione di chi non riconosceva dentro la faida interna un partner negoziale affidabile. La guerra civile tra le due fazioni iniziata nel 2007 ha prodotto danni gravi alla credibilità internazionale dei palestinesi”.

Tra le condizioni accettate da Hamas c’è anche il via libera a elezioni generali palestinesi, per le quali, ha però detto Abbas, “ci vuole tempo”. Ciò significa che la riconciliazione, al momento, esiste solo sulla carta?

“Chi può dirlo? Anche la riconciliazione sembrava impossibile fino a poco tempo fa, poi l’Egitto è sceso in campo (anche e soprattutto per i suoi problemi nel Sinai del nord) e nel giro di poche settimane le due parti hanno ripreso a parlarsi. Abbiamo visto gli uomini di Fatah e Hamas fare la spola con il Cairo e ora si evocano le elezioni”.

C’è il rischio che questa sua riconduzione all’interno di un processo democratico possa rendere Hamas preponderante?

“Hamas rappresenta solo una parte del popolo palestinese. Ed è una parte che ha sofferto molto, anche e forse soprattutto a causa di Hamas. Quando dieci anni fa Hamas vinse le elezioni Fatah avrebbe dovuto chiedersi il perché, come e quanto fosse cambiata la causa palestinese, perche l’islamismo avanzasse tra i giovani. Non lo ha fatto. Puo darsi che lo faccia adesso. Il tempo sta scadendo”. 

In Israele i partiti di estrema destra sembrano tenere le fila del governo Netanyahu. Questo, di certo, non agevola il processo di pace…

“La destra avanza dovunque. E’ un trend mondiale. In occidente e non solo. Anche nel mondo arabo si preferisce a grosse linee il destrorso Trump al democratico Obama e di certo si preferisce Putin alla raziocinante Merkel. Demonizzare il processo non aiuta a capirne le ragioni, le paure, la diffidenza, la rinascita dei nazionalismi, la nuova geografia dei muri”.

Durante il suo viaggio istituzionale a Roma, il ministro degli Esteri palestinese, Al Maliki, si è detto ottimista su Trump. Eppure gli Usa hanno sostenuto Tel Aviv nella sua protesta contro l'Unesco, vorrebbero spostare la loro ambasciata in Israele a Gerusalemme e potrebbero mettere il veto sull'ingresso della Palestina nel Consiglio di sicurezza Onu. Da dove nascono queste sensazioni positive?

“Maliki è convinto che Trump si sia impegnato e che essendo un apolitico imprevedibile possa riservare sorprese. L’ho intervistato a Roma. Dice che la mitezza di Obama ha galvanizzato Netanyahu e la destra israeliana mentre Trump, amico del Likud, è uno che i falchi non possono non ascoltare. E al presidente americano converrebbe enormemente una pacificazione benedetta da Riad. Maliki ritiene che se Trump chiedesse serietà Israele gliela dovrebbe (laddove non doveva nulla a Obama)”.

Luca La Mantia

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