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70 anni di docenza in clandestinità. La cattedra di Wojtyla

70 anni di docenza in clandestinità. La cattedra di Wojtyla come testimonianza di una fede coerente fino all’eroismo. Nel 1954 fu abolita la Facoltà di Teologia dell’Università Jagellonica e venne organizzata la Facoltà teologica presso il seminario di Cracovia, dove il futuro Giovanni Paolo II esercitò la sua docenza. E insegnava  pure all’Università Cattolica di Lublino come professore incaricato. Di lui ha detto papa Francesco:  “San Giovanni Paolo II era un uomo di Dio perché pregava, e pregava tanto. Ma come mai un uomo che ha tanto da fare, tanto lavoro per guidare la Chiesa, ha tanto tempo di preghiera? Lui sapeva bene che il primo compito di un vescovo è pregare. E questo non lo ha detto il Vaticano II, lo ha detto San Pietro, quando hanno fatto i diaconi, dissero: ‘E a noi vescovi, la preghiera e l’annuncio della Parola’ (cfr At 6,4). Il primo compito di un vescovo è pregare, e lui lo sapeva, lui lo faceva. Modello di vescovo che prega, il primo compito. E ci ha insegnato che quando un vescovo fa l’esame di coscienza alla sera deve domandarsi: quante ore oggi ho pregato? Uomo di preghiera”.

Papa Francesco in udienza. Foto: Vatican News

Docenza nella giustizia

Inoltre, prosegue Francesco, “non era un uomo distaccato dal popolo, anzi andava a trovare il popolo. E girò il mondo intero, trovando il suo popolo, cercando il suo popolo, facendosi vicino. E la vicinanza è uno dei tratti di Dio con il suo popolo. Un pastore è vicino al popolo, al contrario, se non lo è non è pastore, è un gerarca, è un amministratore, forse buono, ma non è pastore. Vicinanza al popolo. E San Giovanni Paolo II ci ha dato l’esempio di questa vicinanza. Vicino ai grandi e ai piccoli, ai vicini e ai lontani, sempre vicino, si faceva vicino”. Prosegue Francesco: “Un uomo che voleva la giustizia, la giustizia sociale, la giustizia dei popoli, la giustizia che caccia vie le guerre. Ma la giustizia piena! Per questo San Giovanni Paolo II era l’uomo della misericordia, perché giustizia e misericordia vanno insieme, non si possono distinguere nel senso di separare, sono insieme. Giustizia è giustizia, misericordia è misericordia, ma l’una senza l’altra non si trova”.

Foto © VaticanMedia

Modello

Per l’episcopato polacco la canonizzazione di Karol Wojtyla ha obbligato “in un modo ancora più attento e più creativo di leggere la sua eredità. Espressa dalle parole, dalla sua personalità, dal suo stile di vita, e dal servizio da lui svolto. Giovanni Paolo II ha guidato la Chiesa universale e ci ha fortificato nella fede per più di 26 anni. Abbiamo un amico di Dio in Cielo“. Anche Giorgia Meloni ha ricordato, in chiusura del suo intervento davanti all’assemblea generale delle Nazioni Unite, la figura e il messaggio, proprio all’Onu, di Karol Wojtyla. “Su questi e molti altri temi – ha detto la presidente del Consiglio – si dimostrerà la nostra capacità di governare il nostro tempo. La nostra capacità di fare quello che in questa sede, il 2 ottobre del 1979, un grande uomo, un santo e uno statista come Papa Giovanni Paolo II ci ricordava. E cioè che l’attività politica, nazionale e internazionale, viene dall’uomo. Si esercita attraverso l’uomo ed è per l’uomo”.

Foto di Edgar Winkler da Pixabay

Docenza nella fede

Karol Wojtyla aveva avuto una formazione cristiana molto particolare. Sua madre aveva fatto in tempo a insegnargli a farsi il segno della croce, a pregare. Ma poi erano stati due uomini, due laici, a forgiarlo nella fede. Ossia il padre, naturalmente, e un personaggio straordinario, conosciuto per caso, Jan Tyranowski, sarto e catechista. Passavano gli anni e, attraverso molteplici esperienze, cementata in mezzo alle sofferenze e alle tragedie della Polonia, era maturata via via la vocazione sacerdotale. Ma anch’essa in un modo che non era quello consueto, ordinario. Il regime comunista aveva chiuso i seminari e imposto ai vescovi di non accogliere più candidati. Cosi che Karol aveva cominciato a frequentare di nascosto i corsi di teologia. Continuava a lavorare alla cava, aiutava l’operaio che faceva saltare le mine, e poi a casa studiava da solo. E, sempre sostanzialmente da solo, aveva portato a termine il suo percorso spirituale, nell’avvicinamento all’Assoluto. E anche dopo, negli anni successivi, il suo essere ministro di Dio, da sacerdote e da vescovo, aveva sempre avuto connotazioni singolari, speciali. Un andare avanti con dentro la forza della fede, senza paure, spesso controcorrente. Come quando c’era stato l’incontro con i giovani. Dunque, un uomo profondamente mistico. Ma non per questo estraneo ai problemi degli uomini, del mondo. E cioè, aveva saputo realizzare in se stesso una perfetta sintesi tra vita contemplativa e vita attiva. Era un uomo libero, interiormente libero. E appunto da qui veniva il suo distacco dalle “cose”, dagli agi, dalle comodità.

Foto di Karolina Grabowska da Pixabay

Modo di vivere

Da qui, soprattutto, veniva il suo modo di vivere, che richiamava cosi da vicino la povertà francescana. Povertà nel vestire (il vecchio soprabito, regalava di tutto, maglioni, scarpe, a chi ne aveva bisogno), nel mangiare (non chiedeva mai qualcosa di speciale), nell’abitare in due sole stanze molto spartane (aveva mantenuto gli stessi mobili di Paolo VI), nel rapporto con il danaro (si pagava le telefonate ai suoi amici in Polonia). Già da cardinale, i diritti dei suoi libri servivano ad aiutare professori in difficolta con il regime. Poi, da Papa, i diritti del libro-intervista di Vittorio Messori destinati a una fondazione per bambini in Africa. Uomo semplice, umile. Si scusava, se riteneva di aver sbagliato. Chiedeva il parere degli altri: “Che te ne pare?”. Ascoltava, specialmente a tavola, quando invitava persone che gli raccontavano come andassero le cose nel mondo. Una missione scritta nel suo DNA. “Vescovo a soli trentotto anni, cardinale a quarantasette e Papa a cinquantotto: non si può dire che le doti di Karol Wojtyla non siano state riconosciute dai suoi superiori”, ha osservato il regista polacco Krzysztof Zanussi, autore del film-biografia Da un paese lontano. In realtà la nomina vescovile del giovane e brillante sacerdote di Wadowice, “specializzato” nell’educazione dei giovani universitari e specialmente delle giovani coppie, arrivò inaspettata anche per lui. Nonostante il nuovo incarico, il futuro Papa continuo le sue attività e due anni dopo, nel 1960, pubblicò il dramma “La bottega dell’orefice” e il saggio “Amore e responsabilità”.

Lech Walesa e Papa Giovanni Paolo II (foto Ansa/Sir)

Origini e docenza

La sua città natale Wadowice, negli anni Trenta del secolo scorso, contava circa diecimila abitanti, e un terzo erano ebrei, tutti con un grande sentimento patriottico. Cattolici ed ebrei vivevano in un clima di serenità, di amicizia, senza conflitti. Karol Wojtyla aveva in classe molti compagni ebrei; giocava a pallone (di solito in porta) con amici ebrei. Ebrea era la ragazza del piano di sopra, Ginka, che lo aveva avvicinato al teatro, recitava con lui. Ed ebreo era Jerzy Kluger, uno degli amici piu cari; Karol lo aveva conosciuto in prima elementare, e ne frequentava la casa. Dove andava spesso ad ascoltare la radio o il quartetto musicale, guidato dall’avvocato Kluger, che era anche il presidente della locale comunità ebraica. Lolek (Karol) e Jurek (Jerzy), com’erano soliti chiamarsi con il vezzeggiativo, erano rimasti assieme, nella stessa classe, fino alla maturità ginnasiale. Scoppiata la Seconda guerra mondiale, Lolek e suo padre erano fuggiti verso Est. Ma poi, con l’esercito russo che avanzava da quella parte, erano tornati a Cracovia.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Testimonianza

Anche Jurek e suo padre avevano tentato la fuga, ma erano finiti nelle mani dei sovietici. Rimaste a casa, a Wadowice, convinte che i nazisti non le avrebbero toccate, le donne della famiglia Kluger – la mamma di Jurek, la sorella Tesia, vent’anni, e la nonna quasi cieca – erano poi tragicamente scomparse nei campi di sterminio di Auschwitz e di Bełżec. Jurek aveva combattuto in Italia, nell’esercito del generale Anders. Finita la guerra, si era sposato e, dopo l’Inghilterra, era andato a vivere a Roma. E a Roma, inaspettatamente, aveva incontrato il vecchio amico, Lolek, ch’era diventato arcivescovo di Cracovia e stava partecipando ai lavori del Concilio. Si pensavano morti, invece si erano ritrovati vivi. E quell’amicizia non si era più interrotta, neanche dopo l’elezione pontificia di Lolek. Il Papa lo invitava ogni tanto a pranzo o a cena. Continuavano a darsi del tu, a comportarsi come due compagni di scuola. Un’amicizia – l’amicizia di una vita – che ebbe una grande eloquenza simbolica in rapporto al dialogo, promosso dal Vaticano II, tra Roma e l’ebraismo. E c’era anche Jurek, quel 13 aprile del 1986, quando il capo della Chiesa cattolica fece quel che, in duemila anni, nessuno dei suoi predecessori aveva osato fare: entrare in una sinagoga.

Giacomo Galeazzi

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