La sensazione è quella di una gara, fra le due organizzazioni, a conquistare nuovi adepti a colpi di massacri, un marketing sanguinario dietro il quale per il momento è difficile vedere un nuovo riavvicinamento fra Isis e al Qaeda, che pure a lungo hanno camminato insieme, la prima una costola della seconda. A rivendicare la strage infatti è lo sceicco Harit al Nadhari, guida spirituale dell’Aqap, ramo yemenita-saudita di Al Qaeda, lo stesso che a novembre aveva criticato al Baghdadi accusandolo di dividere la galassia jihadista. Per molti analisti un monito dovuto alla necessità dei qaedisti di recuperare il terreno perso – almeno sul piano della visibilità – nei confronti dell’aggressiva politica di espansione dell’Isis, da sempre molto attenta all’immagine, come dimostra ad esempio l’uso spregiudicato di youtube e dei social media per veicolare i propri video curatissimi.
Rivalità insomma, almeno ai vertici, che però a quanto pare genera nella base qualcosa di diverso. I media hanno già raccontato i profili dei tre attentatori, ora tutti martiri della jihad, spiegando il passato dei due fratelli Kouachi, vicini ad Abu Bakr Al Hakim, ex qaedista migrato nelle fila dell’Isis, ma tuttora pronti a definirsi seguaci di Osama; e la storia di Amedy Coulibany, “soldato” dell’ultim’ora di al Baghdadi. Persone che si frequentavano e per le quali evidentemente le divisioni fra le due organizzazioni contavano poco. Insieme hanno agito e colpito. Diciassette morti fra gli odiati crociati e fra gli ebrei, tre martiri dell’Isis e di al Qaeda uniti. Per la jihad un segnale fortissimo. Per l’Occidente un pericolo mortale.
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