Intervento

L’investimento per una nuova vita con le Comunità Educanti (CEC)

L’opera di emenda, che è la vittoria della società sul reo, anima la legislazione penale italiana e postula una determinazione umana e giusta non solo della pena (la sanzione di un delitto) ma di tutto il regime di vita dei penitenziari. La pena, prendendo in prestito una frase del Professore Giulio Battaglini, è un istituto poliedrico che ha più scopi, e tra questi scopi l’azione rieducativa dei detenuti è il principio cardine di tutti i sistemi penali dei paesi civili. Senza rieducazione l’ordine sociale non può essere tutelato. La rieducazione della pena è un principio costituzionalizzato nel nostro ordinamento giuridico.

La rieducazione, come affermato dall’attuale Ministro della giustizia, Carlo Nordio, “è il più efficace strumento di politica criminale a disposizione dei governi: restituisce alla comunità cittadini redenti e risocializzati, ma soprattutto interrompe la trasmissione e il contagio della tendenza a delinquere tra le generazioni, scongiurando l’ereditarietà della devianza”. L’emendazione del reo non vuol dire che questi venga riportato nella identica posizione di prima del commesso delitto bensì significa che la sua personalità debba essere restaurata e che la sua dignità sia salvaguardata affinché possa retrocedere dalla via del male e ritornare sulla retta via.

Il fine della correzione del reo, la sua emendazione è rinvenibile – come ammonizione e punto di riferimento – nella frase del Testamento antico e con valore accentuato nel Nuovo “Io non voglio la morte del peccatore ma che si converta e viva”. Per far ciò occorre prendere a cuore le sorti dell’uomo delinquente, in primis il suo pentimento, frequente dopo le deviazioni delittuose, che dimostra l’esistenza della coscienza morale che alberga in ogni essere umano, così da impedire la ripetuta attività criminale.

Del resto, come ci ricorda magistralmente Papa Francesco: “Mai nessun uomo, neppure l’omicida perde la sua dignità personale, perché Dio è un Padre che sempre attende il ritorno del figlio il quale, sapendo di avere sbagliato, chiede perdono e inizia una nuova vita. A nessuno, quindi, può essere tolta non solo la vita, ma la stessa possibilità di un riscatto morale ed esistenziale che torni a favore della comunità”.

Irrinunciabile è quindi la rieducazione, ossia l’adozione di quei mezzi che prevengono il ripetersi di azioni delinquenziali ed il danno che da esse deriva alla comunità. Rieducare il condannato significa riattivare il rispetto dei valori fondamentali della vita sociale. Un uomo recuperato e rieducato alla vita non è più pericoloso, anche perché, come ci ha insegnato Don Oreste Benzi: “Nello sbaglio di uno c’è lo sbaglio di tutti. Per recuperare uno è necessario il coinvolgimento di tutti”. La società tutta può e deve essere coinvolta nel recupero dell’uomo che sbaglia.

L’attuale sistema carcerario ha ormai evidenziato tutte le sue criticità: è costoso, inumano, inefficiente e degradante; la mancanza di spazio e le condizioni di trattamento sono incompatibili con la funzione sia rieducativa che espiatoria della pena.

Come affermato dal Ministro della giustizia Carlo Nordio occorre: “un nuovo modello di prigione che punta a valorizzare il lavoro dei detenuti, tra i cui benefici spicca quello di consentire l’apprendimento di nuove abilità utili al reinserimento del carcerato, e idonee ad eliminare il rischio di recidiva del reato”. Un nuovo modello, sempre per usare le parole del Guardasigilli, che: “non potrà fare a meno della collaborazione degli enti territoriali, per la creazione e la gestione di strutture alternative alla prigione in senso stretto, soprattutto per evitare il fenomeno delle “porte girevoli”, cioè dei brevi ingressi in carcere nelle fasi preliminari delle convalide con successive scarcerazioni”.

E’ allora dato incontrovertibile che la compiuta applicazione al principio costituzionale di rieducazione della pena postuli che siano garantiti percorsi di formazione e lavoro per contrastare la recidiva e recuperare le persone detenute, come prestigiosamente affermato dal Ministro della giustizia Carlo Nordio e dal Presidente del CNEL, Renato Brunetta illustrando, nel mese di dicembre, l’accordo tra le due istituzioni che favorirà la formazione e il lavoro per i detenuti, con l’obiettivo di abbattere l’elevato tasso di recidiva dovuto alla mancanza di occasioni di reale reinserimento nella parte sana della società.

In tale contesto si inseriscono le Comunità Educanti con i Carcerati (CEC), il cui progetto è stato elaborato dalla Comunità di Papa Giovanni XXIII che perseguono il fine di eliminare le cause che conducono al comportamento deviante, attraverso un percorso educativo per il detenuto. Dette Comunità (CEC) sono delle realtà che assicurano la certezza della pena e la certezza del recupero del reo all’interno di un circuito comunitario, in una dimensione di casa e di famiglia dove laici eroici mettono la propria vita accanto a quella degli ultimi.

L’opera di accoglienza per la rieducazione dei detenuti – grazie anche all’opera della Giovanni XXIII che prosegue all’insegna del sogno di Don Oreste: costruire alternative affinché il carcere diventi una istituzione inutile – in questi giorni ha registrato la sensibilità del sottosegretario di Stato al Ministero della giustizia Andrea Ostellari, come rinvenibile sulle pagine di Avvenire (di venerdì 1° marzo 2024), che auspica “un più massiccio e strutturato ricorso alle comunità educanti”. Connubio tra Chiesa ed Istituzioni che potrebbe finalmente portare alla piena affermazione delle parole di Don Oreste Benzi: “L’uomo non è il suo errore! E’ necessario passare dalla certezza della pena alla certezza del recupero”.

Del resto, lo stesso Guardasigilli Carlo Nordio nel suo intervento al Convegno in Campidoglio dal titolo “Vent’anni di Garante di Roma Capitale e dei Garanti territoriali delle persone private della libertà”, già a novembre, aveva affermato che “L’espiazione non dovrebbe essere necessariamente affidata alle sbarre e ai catenacci: servono soluzioni alternative”.

Il progetto delle Comunità Educanti con i Carcerati, definito dal sottosegretario Andrea Ostellari: “un nuovo patto tra Stato e detenuti”, quale soluzione alternativa al carcere e mezzo di reinserimento sociale, si connota proprio per un impatto che si riverbera sulla rieducazione del ristretto, sul miglioramento delle condizioni carcerarie per i detenuti e per il personale di polizia penitenziaria, a fronte della riduzione del sovraffollamento, nonché sull’abbassamento della recidiva, sulla sicurezza dei cittadini, sul risparmio economico e sul rispetto degli ultimi.

Luna Montero

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