Intervento

Una Chiesa centrata sulla misericordia

La Chiesa lasciata in eredità da Karol Wojtyla – pur nella assoluta continuità con i suoi predecessori – appare molto diversa e comunque molto cambiata, fortemente cambiata, rispetto a quella che nel 1978 gli era stata affidata. E infatti, Giovanni Paolo II ha traghettato il cattolicesimo, da una ancora complessa crisi postconciliare, a una nuova evangelizzazione, a una più incisiva presenza nella storia, e a una proiezione universale mai prima conosciuta. Plasmando così una immagine di Chiesa profondamente rinnovata, sia nella linea di un progressivo sviluppo delle indicazioni del Concilio Vaticano II, sia in risposta alle nuove esigenze emerse dalla comunità cattolica e, più in generale, dall’umanità.

Fin dai tempi di Cracovia, Wojtyla aveva maturato una sua visione di Chiesa: una ecclesiologia decisamente cristocentrica, dalla quale poi lui faceva discendere la sua concezione dell’uomo, la centralità della persona umana. Diventato Papa, questa visione rispuntò nelle prime tre encicliche, il trittico trinitario, che caratterizzò la stessa preparazione del Giubileo del 2000. La Trinità, dunque, come chiave interpretativa per comprendere la fede, lo specifico dell’essere cristiano; ma che rappresenta anche la realtà della Chiesa, la sua natura, la sua missione. Un insieme di unità e molteplicità, di identità e diversità. Come dire, anche una maggiore diversità nell’essere Chiesa. Quali sono i tratti essenziali di questa nuova Chiesa?

Per cominciare, una Chiesa riconciliata, che ha fatto i conti con se stessa, con il suo passato, con le colpe che ne gravavano la storia, ne offuscavano il volto. E, questo, grazie soprattutto alla grande esperienza del Giubileo, che le ha permesso di varcare la soglia del terzo millennio pentita e purificata. Una Chiesa più spirituale, più evangelica, più biblica, perché centrata sul primato della parola di Dio. E, quindi, della vita interiore, della santità: una santità finalmente “aperta” a tutti, e non più monopolio di alcune categorie, di alcuni gruppi. Una Chiesa che non è più una monarchia assoluta, come poteva apparire fino a qualche tempo fa. Meno burocratica, e, in prospettiva, più sinodale, come nell’Oriente. Una Chiesa meno clericale e, invece, con un maggiore spazio per i cristiani laici, e in particolar modo (malgrado la misoginia ancora così diffusa tra i chierici) per il “genio” femminile. Una Chiesa non più dominata, rispetto a un tempo, dal moralismo.

E intanto – specialmente dopo la straordinaria catechesi di Wojtyla sulla teologia del corpo – cominciava a delinearsi una proposta morale, non più caricata di divieti, di cose-da-non-fare, ma fondata sul disegno di salvezza di Dio Padre – un Padre esigente ma anche misericordioso – e tendente alla maturazione della coscienza del credente. Una Chiesa non solo realmente mondiale, ma espressione di una felice sintesi tra universalità e inculturazione. Con il progressivo spostamento del suo baricentro verso l’America Latina, l’Africa, l’Asia. Ma dove, proprio per la sua azione a favore della gente più povera, più oppressa, la missione evangelizzatrice viene purtroppo segnata da un nuovo martirio. Come agli inizi del cristianesimo.

Gianfranco Svidercoschi

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