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Upskirt, il web rischioso per i giovani e criminale per gli adulti

L’upskirt è la nuova e perversa pratica del voyeurismo, diffusa oggi in tutto il mondo, per fotografare o riprendere, dal basso, le parti intime femminili, violando gravemente la privacy. Il termine è composto da quelli inglesi di “up” (sopra) e “skirt” (gonna).

Le nuove tecnologie e le procedure sempre più immediate e semplificate, nell’immortalare immagini, abbinate a strumentazioni sempre più piccole (microcamere e accessori specifici), hanno favorito quest’uso immorale.

Si viola, dunque, la privacy e si alimenta un mercato on line, con siti dedicati e con milioni di cultori. Vista l’estensione enorme del nuovo fenomeno, i vari Stati stanno correndo ai ripari, stabilendo leggi severe e sanzionando pesantemente il reato.

Nella mente scellerata di chi effettua l’upskirt, c’è una personale (ma del tutto inconsistente) giustificazione che si fonda sul principio che, in genere, in tali immagini non siano visibili i volti delle vittime e quindi non siano riconoscibili.

Nel passato, si verificavano situazioni molto spiacevoli, in cui erano rinvenute microcamere in spogliatoi e bagni, nei punti più impensabili, per riprendere e fotografare le persone nei momenti intimi. L’attenzione mediatica, tuttavia, sottovalutava l’impatto del reato derubricandolo a effetto isolato, goliardico e ignorando quanto questo fosse, in più, la punta di un iceberg che, nel web (specie quello colpevolmente più “tollerato”), purtroppo, conta una sterminata folla di appassionati.

Alcuni individui, perversamente esperti nell’uso di questi dispositivi tecnologici, individuano i punti dove poterli fissare (borse, zaini, scarpe, ecc.) e si recano nei luoghi affollati (in particolare i mezzi pubblici o i centri commerciali) per poter praticare l’upskirt. Altri li fissano in alcuni luoghi dei marciapiedi in cui c’è il passaggio frequente di pedoni.

Nel 2019, in Spagna, un colombiano, con il suo zaino integrato da telecamera, è stato denunciato per aver violato la privacy di circa 500 donne. I numeri offrono la dimensione del fenomeno: i video che aveva inserito on line, avevano raccolto milioni di visualizzazioni.

Nel 2019 fece molto scalpore l’iniziativa di una ragazza inglese (Gina Martin) che, sfruttando il web e i social, ha scosso l’opinione pubblica e il Parlamento, fino a ottenere il riconoscimento del reato di upskirting da lei subito, colmando il vuoto legislativo.

Questo caso, non isolato, dimostra come occorra, molto spesso, attendere il fatto contingente per arrivare a sanare, a livello normativo, dei fenomeni sottovalutati e poco conosciuti.

La Legge 19 luglio 2019, n. 69 (recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”) definita “Codice Rosso”, in vigore dal successivo 9 agosto, ha introdotto l’articolo 612 ter c.p. (noto come “revenge porn”). L’articolo (Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti), inserito nel Libro II-Dei delitti in particolare, Titolo XII-Dei delitti contro la persona, Sezione III-Dei delitti contro la libertà morale, è disposto con l’intento di ridurre i rischi della cosiddetta “internet society”. Stabilisce “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000.

La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento.

La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici.

La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza.

Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”.

La nota attrice statunitense Mariska Hargitay affermava, con vivo sarcasmo “Prima dovevi uscire e nasconderti nei cespugli ora puoi violare l’intimità di chiunque seduto al tuo computer bevendo una tazza di caffè”.

I libri sul voyeurismo, argomento che è a monte dell’upskirt, sono molti. Fra questi, il volume dal titolo “Perversioni: voyeurismo ed esibizionismo. Aspetti clinici, culturali e sociali del comportamento sessuale deviante”, pubblicato da Edizioni Accademiche Italiane nel 2014,  in cui l’autrice, la psicologa Fabiana Milone, approfondisce l’argomento, in considerazione anche del comportamento e del pensiero, degli adolescenti.

L’agenda digitale europea che ha lo scopo di “sfruttare al meglio il potenziale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) per favorire l’innovazione, la crescita economica e il progresso offerti da un mercato digitale unico”, al link https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/privacy/revenge-porn-prime-impressioni-e-problematiche-interpretative/, il 25 novembre scorso fornisce valutazioni e dati, tra questi “Ci sono due episodi di revenge porn al giorno, secondo un dossier di novembre del Servizio analisi della Direzione centrale della Polizia criminale. A novembre 2020, 1083 le indagini in corso”.

Si ripropone, anche per l’upskirt, l’annoso problema sul corretto impiego della tecnologia. Inutile considerarla negativa se volta al bene sociale, all’informazione e al progresso culturale; giusto condannarla e reprimerla se asservita a diaboliche utilizzazioni.

Gli aspetti inquietanti sono, comunque, di duplice natura e pongono inquietanti interrogativi sulla deriva morale, culturale e spirituale dell’essere umano. Se, da un lato, vi sono individui dediti a ingegnarsi, in preda a perverse deviazioni, per “rubare” immagini personali e intime, dall’altro vi è una schiera sconfinata di cultori del fenomeno, disposti, in tutti i modi, a ottenere tali immagini. Ciò che lascia interdetti è la dimensione del fenomeno: non riconducibile né derubricabile a ragazzate di individui solitari e pressoché infinitesimali nel novero della popolazione. Tutto il mondo ne è coinvolto, segno di una base genetica diffusa e predisposta. Tutto il mondo deve porre rimedio, senza zone free o di parziale tolleranza.

La consapevolezza di prevenire tale ignominia deve essere ancora più radicata e ferma, se si considera il ruolo che bambini e adolescenti possono avere in tale pratica, sia come vittime sia come potenziali responsabili sia come utilizzatori nel web.

Marco Managò

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