Tre anni dopo il sisma delle 3.36 del 24 agosto 2016, costato la vita a 303 persone, Amatrice si presenta come una grande spianata, libera dalle macerie, segnata da una lingua di asfalto percorsa su e giù da auto e camion. Qui questa mattina, in diretta su Rai1, il Vescovo di Rieti, mons. Domenico Pompili, ha celebrato la Messa per le vittime, per le loro famiglie e per quanti hanno perso casa e lavoro a causa del terribile terremoto di tre anni fa. Un'omelia incentrata non solo sui ritardi nella ricostruzione, ma anche sulla speranza di ricominciare.
Commentando il passo dell'Apocalisse – “L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo” – il vescovo ha esorditto dicendo: “A tre anni dal terremoto siamo comprensibilmente centrati sui ritardi della ricostruzione, sullo spopolamento, su una burocrazia che non conosce deroga, sul disamore che si intravvede rispetto a questa bellissima terra. Questo è il mondo vecchio. Non basta però quest’analisi indiscutibile. Occorre un’altra cosa: ci vuole una ‘visione’. Questo è il mondo nuovo”.
“A dire il vero – prosegue – più che una visione in questi tre anni sono prevalsi ‘punti di vista’ diversi, anche a motivo dell’alternarsi di Governi, di responsabilità personali, di varia umanità. E la tendenza ogni volta è stata quella di ricominciare daccapo, nel modo esattamente contrario a chi è venuto prima. L’effetto inevitabilmente non poteva essere che lo stallo. Senza un progetto, cioè senza un respiro lungo non si va da nessuna parte. E come si vede, proprio in questi giorni, l’Italia stessa boccheggia. Più che una visione in questi tre anni si è fatta strada una certa confusione. Se manca uno sguardo condiviso si spegne anche l’entusiasmo, passata l’adrenalina dell’emergenza. Sapere, ad esempio, cosa fare delle cosiddette ‘Aree interne’ del Paese è un modo concreto per fare chiarezza rispetto ad un contesto che va rigenerato non per ostinazione, ma per necessità. Perché l’Italia senza i borghi dell’Appennino non è più la stessa. Occorre però che su questa priorità si converga quando si decide di infrastrutture, servizi sociali, opportunità culturali. Più che una visione in questi tre anni si è affermata una limitazione che coincide con il proprio ‘particulare’. L’ingenuità di cavarsela da soli, peraltro, è figlia di una mentalità diffusa: quella del ‘prima io’, che porta a non prendersi cura dell’insieme. Il rarefarsi della socialità, a dispetto dei social, è l’esito triste del restringimento mentale degli individui. E quando vien meno il campo largo sulla realtà la capacità di resistere scompare“. “Ritrovare una ‘visione’, è l’unica strada per sottrarsi alla paralisi di un’analisi senza speranza. Lo dobbiamo non solo ai nostri figli, ma anche a quelli che non sono più tra noi. La domanda vera, ha concluso mons. Pompili, non è “Da dove vieni?” quanto “Dove vai?”.
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