L’EXPO DELLA FAME

La fame uccide più delle malattie. In pieno Terzo Millennio, a dispetto del progresso tecnologico e del miglioramento dei rapporti tra Stati, il dato è ancora devastante: il rischio maggiore per la salute degli individui è rappresentato dalla malnutrizione, più che dall’azione combinata di Aids, malaria e turbercolosi.

Nel giorno dell’apertura di Expo 2015 per avere uno spaccato – anche se scomodo – della realtà, lo sguardo va spostato dalla “buona alimentazione”, concetto occidentale legato alla salute, al “cibo per vivere”, connesso alla sopravvivenza nei Paesi in via di sviluppo. E il problema non è di nicchia.

805 milioni di persone nel mondo – fonte Wfp, World Food Programme – non hanno infatti ancora abbastanza da mangiare. La stragrande maggioranza delle persone che soffrono la fame (709 milioni) vive appunto nei Paesi in via di sviluppo, dove il 13,5% della popolazione è denutrita. L’Asia, ad esempio, ha la più alta percentuale di persone che soffrono la fame (circa 525 milioni), anche se questo numero si sta lentamente riducendo.

expoCi sono altri numeri però che lasciano inorriditi: la scarsa alimentazione provoca quasi la metà (45%) dei decessi dei bambini sotto i cinque anni (3,1 milioni ogni anno). Un bimbo su 6 (sono circa 100 milioni) è sottopeso, uno su quattro soffre di deficit di crescita. Nei paesi in via di sviluppo, 66 milioni di bambini in età scolare – 23 milioni nella sola Africa – frequentano le lezioni a stomaco vuoto.

Inutile continuare a snocciolare cifre per fotografare la gravità della situazione. Eppure, al di là degli slogan che la fanno da padroni anche in occasione come questa dell’Expo, la volontà dei governi di mettere mano alla situazione è minimale. Le principali cause della fame infatti, oltre ai disastri naturali, sono i conflitti, la povertà endemica, l’assoluta scarsità di infrastrutture per l’agricoltura e lo sfruttamento eccessivo dell’ambiente.

Allora viene da chiedersi: a che (a chi) serve questo Expo’? Quanto peserà sulla vita reale degli “ultimi” della Terra questa passerella certamente buona per i politici, forse un’opportunità per le aziende, e come abbiamo visto dalle inchieste un piatto appetibile per la criminalità?

Serve una politica globale di riequilibrio delle risorse, il trasferimento del know how e l’intervento sulle infrastrutture. Obiettivo possibile, a patto che non si badi al lucro immediato (diamanti, petrolio, gas) ma si agisca in un’ottica di crescita planetaria, intendendo l’essere umano al di sopra delle divisioni politiche, ideologiche e di convenienza. In sostanza, donando senza ritorni ai Paesi da sempre sfruttati. Uno schiaffo all’egoismo, che fino a oggi nessuno è stato capace di dare.

Resta dunque ancora un’utopia, che forse diventerà realtà operativa forse solo quando la disponibilità di cibo (e acqua) toccherà direttamente i Paesi occidentali.

Ma fame non significa solamente mancanza reale di cibo. Essa si manifesta anche in forme più nascoste. La carenza di micronutrienti, ad esempio, espone le persone a contrarre più facilmente le malattie infettive, impedisce un adeguato sviluppo fisico e mentale, riduce la produttività nel lavoro e aumenta il rischio di morte prematura.

E questa situazione non colpisce solamente gli individui ma mina anche le potenzialità economiche. Gli economisti stimano che ogni bambino il cui sviluppo mentale e fisico sia alterato dalla fame e dalla denutrizione, ha una minore capacità di generare reddito, nel corso della sua vita, che varia tra il 5 e il 10 per cento. Uno schiaffo alla possibilità di crescita di intere porzioni del pianeta

Tra gli Obiettivi di Sviluppo per il Millennio, stabiliti dalle Nazioni Unite per il XXI secolo, al primo posto vi è il dimezzare la proporzione del numero degli affamati. Nonostante i progressi compiuti nella riduzione della fame cronica nel corso di tutti gli anni Ottanta e Novanta, nell’ultimo decennio si è registrato un lento ma costante aumento della fame.

Detto tutto ciò, per dovere di cronaca va sottolineato come sia la siccità oggigiorno la causa più comune della mancanza di cibo nel mondo. Nel 2006, le piogge scarse ricorrenti hanno causato il fallimento dei raccolti e la perdita di ingenti quantità di bestiame in zone dell’Etiopia, della Somalia e del Kenia. In molti paesi, il cambiamento climatico sta esacerbando le già sfavorevoli condizioni naturali. Ad esempio, gli agricoltori poveri in Etiopia o Guatemala, in assenza di piogge, tendono generalmente a vendere il bestiame per coprire le perdite e acquistare cibo. Tuttavia, anni consecutivi di mancanza di piogge, sempre più frequenti nel Corno d’Africa e nel Centro America, stanno mettendo a dura prova le loro risorse.

C’è poi il capitolo-conflitti. Dall’Asia all’Africa all’America Latina, le guerre costringono milioni di persone ad abbandonare le proprie case e causano tra le peggiori emergenze alimentari globali. Dal 2004, oltre un milione di persone ha dovuto lasciare le proprie abitazioni a causa del conflitto nel Darfur, provocando una grave crisi alimentare, in un territorio dove solitamente non mancavano piogge e buoni raccolti.

In guerra il cibo diventa un’arma. I soldati portano alla fame i nemici rubando il loro cibo e uccidendo il bestiame e colpendo sistematicamente i mercati locali. I campi vengono minati e i pozzi contaminati per costringere i contadini ad andarsene. Ciò che sta accadendo in questi mesi nello scacchiere africano e mediorientale, con intere popolazioni che fuggono dalle persecuzioni dei gruppi islamici estremisti, non fa che amplificare il problema.

Insomma, tra il disinteresse dell’Occidente e la crudeltà dei capi tribù, i poveri sono affamati. Ed è la stessa fame ad intrappolarli nella povertà.