Gli atteggiamenti che possono uccidere il prossimo

Il Vangelo del giorno con il commento di Massimiliano Zupi

“Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai”. “Audistis quia dictum est antīquis: Non occīdes”.

Prima settimana di Quaresima – Venerdì – Mt 5, 20-26

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai (Es 20,13; Dt 5,17); chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!»

Il commento di Massimiliano Zupi

Il quinto dei dieci comandamenti recita: «Non ucciderai» (Es 20,13; Dt 5,17). In effetti, è il centro della Legge: il cui fine è promuovere la vita ed allontanare la morte (Dt 30,19-20), favorire la crescita ed evitare la paralisi. È lo scopo di ogni etica, della cultura stessa: obiettivo di ogni sforzo umano. Ora, però, ci sono molte morti: molti modi di infliggerla e di subirla. La rabbia, l’insulto, la disistima sono altrettante forme di omicidio: uccidono il prossimo, condannandolo, denigrandolo, abbassandolo; in ogni caso, rappresentano una forma di dominio, di sottomissione. Coerentemente, Gesù arriva a condannare qualunque discordia: la separazione, la comunione infranta, è la più comune e la più profonda esperienza di morte. Così, non solo per i bambini, ma per nessuno c’è punizione peggiore che essere allontanato, non essere più considerato, essere escluso dalla relazione. Tuttavia, quale realtà è esente da simili dinamiche?

A ben vedere, la radicalizzazione proposta da Gesù − «Ma io vi dico» − la giustizia superiore da lui esigita − «se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei» − faceva capolino già nel Decalogo. Gli ultimi due comandamenti infatti suonavano: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo» (Es 20,17; Dt 5,21). Lì, come qui, si tratta di quell’interiorizzazione della Legge tante volte annunciata dai profeti: passaggio dall’azione all’intenzione, dall’atto al desiderio, dal nudo fatto al cuore di carne (Ger 31,33; Ez 36,26-27). Ora, però, se già era difficile osservare la legge esteriore, chi potrà essere all’altezza di quella interiore? Esigere la purezza del cuore non è impresa impossibile? A chi non capita di desiderare la moglie del prossimo, come anche di adirarsi contro il fratello, di insultarlo ed offenderlo? La morale proposta dal vangelo non risulta ancora più impossibile, in fondo più disumana di quella veterotestamentaria? Fardello che schiaccia, senso di colpa che opprime, coscienza infelice che produce desolazione? Sì, se questa nuova osservanza dipendesse dalla nostra virtù, dalla nostra forza. Ma la via per raggiungere la purezza dell’intenzione, e superare così la giustizia degli scribi e dei farisei, è un’altra: è gettarsi nel cuore di Gesù, immergersi nella sua Parola. Egli per tutti ha superato e compiuto la Legge.

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