“Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me”

«Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande» «Nam qui minor est inter omnes vos, hic maior est»

Lunedì 28 settembre – XXVI settimana del tempo ordinario – Lc 9,46-50

In quel tempo, nacque una discussione tra i discepoli, chi di loro fosse più grande. Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo mise vicino e disse loro: «Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande».
Giovanni prese la parola dicendo: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non ti segue insieme con noi». Ma Gesù gli rispose: «Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi».

Il commento di Massimiliano Zupi

Il più piccolo è grande. È uno dei paradossi tipici del van-gelo: signore è colui che serve (Lc 22,26-27); perdendosi ci si trova; morendo si ha la vita (Lc 9,24). Ed ancora: obbedendo si diventa liberi; nella sottomissione si è padroni (Fil 2,7-9); nella povertà è la ricchezza (Lc 6,20). Paradosso è un’affermazione che va contro il senso comune; più nello specifico, è l’accostamento di termini opposti. È il linguaggio tipico e adeguato per dire l’esperienza d’amore: essa è schiavitù liberante (Platone), ebbrezza sapiente (Plotino). È anche la figura retorica prediletta dai mistici per dire Dio: trascendente e più intimo a noi di noi stessi, bellezza tanto antica e tanto nuova (Agostino), tenebra luminosissima (Dionigi l’Areopagita).

L’uso dei paradossi, nei Vangeli, è un invito alla metánoia, alla conversione, a mettere in discussione e cambiare il proprio modo di pensare: è espressione infatti della contrapposizione tra logica del mondo e vangelo, tra vessillo di satana e di Dio. Da una parte, la menzogna antica secondo la quale l’affermazione di sé passa per la supremazia sugli altri: è la logica solipsistica, univoca, nella quale essere primi significa avere tutti gli altri dietro, es-sere grandi equivale ad essere più grandi.

Dall’altra parte, la buona novella secondo la quale è possibile trovare sé stessi solo nella comunione, nell’accogliersi vicendevolmente: è la logica della relazione, dell’amore, equivoca perché non si dà un polo senza l’altro, l’io senza il tu, il possedersi senza il donarsi. Ecco allora che il piccolo è grande, perché si cresce nella misura in cui si sia accolti e curati quali infanti: beatitudine è essere come bambini svezzati in braccio alla madre (Sal 131/130,2). Non si tratta di essere bravi: il lieto annunzio, al contrario, è scoprirsi amati nella propria debolezza (2 Cor 12,10) e povertà. Tutto è dono: per questo, quanto più si è piccoli, tanto più si può ricevere e diventare grandi, imparando ad accogliere e donare altrettanto.