San Leopoldo Mandic, il “povero frate” e grande confessore

“San Leopoldo non ha lasciato opere teologiche o letterarie, non ha affascinato con la sua cultura, non ha fondato opere sociali. Per tutti quelli che lo conobbero, egli altro non fu che un povero frate: piccolo, malaticcio. La sua grandezza è altrove: nell’immolarsi, nel donarsi, giorno dopo giorno, per tutto il tempo della sua vita sacerdotale, cioè per 52 anni, nel silenzio, nella riservatezza, nell’umiltà di una celletta-confessionale: ‘il buon pastore offre la vita per le pecore’”. Il discorso pronunciato da Giovanni Paolo II nel giorno della sua canonizzazione sintetizza il profilo di questo santo, al secolo Bogdan Ivan (Adeodato Giovanni) Mandić, nato a Castelnuovo di Cattaro (l’attuale Herceg-Novi in Montenegro) nel 1866, da una famiglia croata molto numerosa. La giovinezza di San Leopoldo è caratterizzata da una spiccata pietà e nobiltà d’animo e da un grande impegno nell’assolvere i doveri scolastici. Ben presto si sente portato per la vita religiosa e decide di entrare nell’ordine dei Cappuccini. A 8 anni compie un peccato non grave e un sacerdote, per penitenza, lo fa inginocchiare in mezzo alla chiesa. Estremamente colpito da quest’esperienza scriverà: “Ne fui profondamente rattristato e pensai fra me e me: perché trattare tanto duramente un bambino per una colpa così lieve? Quando sarò grande, voglio farmi frate, diventare confessore e trattare le anime dei peccatori con molta bontà e misericordia”.

Viene accolto nel seminario di Udine e di Bassano del Grappa dove veste l’abito vivendo la regola di San Francesco. Completa gli studi a Padova e Venezia, città nella quale diventa sacerdote nel 1890. Fin dall’inizio della sua vocazione si sente chiamato a promuovere l’unione dei cristiani orientali separati dalla Chiesa cattolica. Chiede di partire per le missioni d’Oriente, ma l’esile costituzione fisica, la salute cagionevole e un difetto di pronuncia inducono i superiori a non accettare la richiesta. San Leopoldo si adopera come questuante andando di porta in porta o realizza umili lavori quando non è assorbito dal silenzio e dal nascondimento del convento. “L’amore di Gesù – ripete spesso – è un fuoco che viene alimentato con la legna del sacrificio e l’amore della croce; se non viene nutrito così, si spegne”. Girerà numerose città, quali Venezia, Zara, Bassano del Grappa, Thiene, Fiume e Padova. Lì, nel convento di piazzale Santa Croce, viene nominato direttore dei giovani frati cappuccini e insegna Patrologia.

Come docente è comprensivo e benevolo. Tale atteggiamento è ritenuto eccessivo e in contrasto con la tradizione dell’Ordine. Anche per questo, probabilmente, viene improvvisamente sollevato dall’insegnamento. I superiori gli chiedono, allora, di dedicarsi esclusivamente al ministero della confessione. Mostra una smisurata misericordia verso il fedele che si presenta a lui offrendosi addirittura di fare penitenza, espiare e pregare al suo posto. Nell’angusta cella-confessionale di 2 metri per 3 riceve i penitenti, ascoltandoli con pazienza, incoraggiando e consolando, riportando la pace di Dio nelle anime e ottenendo talvolta anche delle grazie di ordine temporale. In tutte le stagioni, senza vacanze, tormentato da varie malattie, fino all’ultimo giorno rimane a servizio delle anime, divenendo un autentico martire del confessionale. Pronto e sorridente, prudente e modesto, confidente discreto e padre fedele delle anime, è maestro rispettoso e consigliere spirituale comprensivo e paziente. A causa della prima guerra mondiale, dopo la rotta di Caporetto, è costretto a vivere due anni di confino in Campania. Ciò accade perché San Leopoldo non intende rinunciare alla cittadinanza austriaca sperando, nel futuro, di ritornare missionario in patria. Il desiderio di dedicarsi all’unità dei cristiani (perché “tutti siano una cosa sola”) pervade tutta l’esistenza di questo santo che merita di essere considerato uno dei più grandi precursori e apostoli dell’ecumenismo. Paolo VI lo indica come “ecumenico” ante litteram perché “sognò, presagì, promosse, pur senza operare, la ricomposizione nella perfetta unità della Chiesa”.

Quando è ormai consapevole che non partirà più in missione decide di vedere il “suo Oriente” in ogni anima che chiede di riconciliarsi con Dio. Conclusa la travagliata parentesi del sud Italia, torna a Padova riprendendo il suo posto in confessionale. Gli Annali della Provincia veneta dei Cappuccini riportano: “Nella confessione esercita un fascino straordinario per la grande cultura, per il fine intuito e specialmente per la santità della vita. A lui affluiscono non solo popolani, ma specialmente persone intellettuali e aristocratiche, a lui professori e studenti dell’Università e il clero secolare e regolare”. Negli ultimi mesi del 1940 la sua salute peggiora a causa di un tumore all’esofago che non sa di avere. Nell’aprile del 1942 è ricoverato all’ospedale ma le sue condizioni diventano sempre più precarie. Rientrato in convento, riprende a confessare, ma all’alba del 30 luglio, mentre si prepara per la Messa, sviene. Lo stesso giorno, ricevuto il sacramento dell’unzione degli infermi, recita le ultime parole del Salve Regina e, tendendo le mani verso l’alto, sale alla Casa del Padre. La cristianità deve molto a questo eroico testimone e ministro della Riconciliazione, annoverato come uno dei “grandi santi confessori” e dispensatori della divina misericordia, assieme a San Pio da Pietrelcina e al Curato d’Ars.