Taglio dei parlamentari, ora serve una riforma strutturale del Parlamento

Il Movimento 5 Stelle, in particolare Luigi Di Maio, possono tirare un sospiro di sollievo. Il risultato del Referendum, scontato nell’esito un po’ meno nel dato percentuale, mettono al sicuro, almeno per il momento, la deriva populista dei 5 Stelle. “Ora normalizziamo gli stipendi dei parlamentari”, è stato il primo commento a caldo del ministro agli Affari Esteri, confermando come i grillini abbiano deciso di giocare sui temi popolari della politica, quelli in grado di riuscire la pancia degli elettori. Il Referendum, da questo punto di vista, rappresenta un’arma stupenda per alimentare la demagogia.

Perché se alla riduzione dei parlamentari non farà seguito una riforma strutturale del Parlamento, in particolare delle sue funzioni, e una revisione organica di una parte della costituzione, vorrà dire che i 5 Stelle, con il taglio lineare della rappresentanza popolare, hanno mirato solo al consenso a buon mercato e nulla più.

Da questo punto di vista appare quanto mai fuorviante la logica scelta dalla Lega, ricordando come Salvini avesse invitato a votare sì, per aggredire il risultato del voto. “I 5 stelle hanno chiesto il voto per il Sì finalizzato ad avere istituzioni più efficienti con un Parlamento di solo 600 eletti. Il Popolo sovrano ha scelto. Ora la logica conseguenza sarebbe che si sciogliessero le Camere per sperimentare finalmente l’efficienza conquistata con la riforma”, scrive su twitter il presidente dei deputati della Lega, Riccardo Molinari, “anche perché sarebbe strano avere un Parlamento non in linea con la Costituzione nella sua composizione e ancora più strano pensare che un Parlamento sfiduciato dai cittadini possa scegliere il prossimo Presidente della Repubblica”.

Sulla scelta del capo dello Stato il dibattito è anche accettabile, un po’ meno congruo il tentativo di mettere insieme nuovo parlamento, elezioni anticipate. Se crisi deve essere, questa deve essere legata all’attività del governo e alla tenuta della maggioranza che lo sostiene. Non certo ad altro. Tant’è che Nicola Zingaretti, forse il vero vincitore di questo giro di giostra, dicendosi “soddisfatto” del risultato del referendum, avendo visto “confermata la validità della scelta del Pd”, torna a chiedere a gran voce le “riforme”. Da fare subito, non domani. “Rappresenteremo anche molte delle preoccupazioni di chi ha votato no reputando insoddisfacente solo il taglio dei parlamentari”, chiosa il segretario dem, facendo intuire come il voto non influisca sul governo, lanciando una ciambella all’elettorato deluso della Lega.

Semmai, il mutamento, lo provocano le Regioni. Da lì, dalla scelta dei governatori, che premia sostanzialmente il centrosinistra, potrebbe uscire il rimpasto o la nuova geografia della maggioranza, ma non certo dal Referendum, sorta di assicurazione sulla vita, politica, dei 5 Stelle. “Volevano colpire il governo e il sottoscritto”, sibila Di Maio, non senza una punta di veleno. In effetti il no valeva quanto quello dato a Renzi. Solo che stavolta le cose non sono andate allo stesso modo. Modesto dettaglio tecnico.

La riduzione dei parlamentari, come prevede la riforma, ha effetto dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della legge costituzionale e, comunque, non prima che siano decorsi sessanta giorni.

La previsione del termine di sessanta giorni è volta a “consentire l’adozione del decreto legislativo in materia di rideterminazione dei collegi elettorali”, che attualmente sono così suddivisi: per la Camera dei deputati sono 232 collegi uninominali e 63 collegi plurinominali; per il Senato 116 collegi uninominali e 33 collegi plurinominali. E’ evidente che questo Parlamento, e non certo il prossimo, dovrà metter mano alla legge elettorale. Che non è una questione da poco. Soprattutto per Italia Viva di Renzi.