Ex Ilva, gli operai a un passo dalla disperazione

Ogni mattina vegno a lavorare con la coscienza sporca, non ce la faccio più a sostenere questa situazione nella mia mente. Da operaio vengo qui e so che sto facendo un danno alla mia famiglia, ma devo essere costretto a licenziarmi per sentirmi a posto con la mia coscienza. Questa terra non offre nient'altro, non ha mai offerto nient'altro. Dovete prendere in considerazione l'amarezza di questa città”. Sono le parole disperate che un operaio dell' ex-Ilva di Taranto ha rivolto al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, in visita al capoluogo pugliese, e riportate da Corriere.it. Il premier, che ieri ha incontrato un gruppo di operai e parlato con loro personalmente, ha però negato di “avere la soluzione in tasca”. Il “gabinetto della crisi” aperto 24 ore su 24 testimonia la complessità di una situazione, con ministri che negano la possibilità di un intervento pubblico e il sindacalista Landini che, al contrario, pensa che un intervento di Cassa depositi e prestiti possa garantire almeno il non licenziamento degli operari

Una voce di denuncia

Ma la storia dell'operaio che ieri si è rivolto a Conte è quella di tanti dipendenti che hanno la sensazione di essere sul filo del rasoio da troppo tempo. Urlano da tempo gli operai, fin quando lo stabilimento era in mano alla famiglia Riva, ma il loro grido è stato spesso inascoltato. Ma sono le carte a parlare: i referti che attestano un livello di metalli nelle urine, soprattutto piombo, molto alto riportano le cifre di un silenzio istituzionale inaccetabile in una realtà che da troppo vive della promessa di essere risanata. 

In sette anni, morte 11.550 persone

Quando sette anni fa una tromba d'aria ha devastato lo stabilimento provocando un morto e 38 feriti, non c'era un piano d'evacuazione adeguato che potesse far fronte alle frequenti trombe d'aria del litorale. Oggi lo Stato un piano d'Evacuazione per uscire dall'impasse confida di non averlo ancora trovato. Il caso dell'Ilva, ex-Italsider, è emblematico di una tendenza a fondare il progresso sulla pelle degli ultimi: i quindici milioni di metri quadrati dello stabilimento hanno fatto del quartiere tarantino di Tamburi una balza dantesca dove ogni giorno si contano sempre più malati e morti di cancro e patologie respiratorie. Nel 2012, i periti della Procura di Taranto calcolano che in sette anni sarebbero morte all'incirca 11.550 persone a causa delle emissioni nocive al punto che i giudici definiscono lo stabilimento “fabbrica di malattia e morte”. 

Speranza riposta

Quando, nel gennaio di tre anni fa, la multinazionale Arcelor Mittal vince la gara per l'acquisizione del polo siderurgico, chiede di poter usufruire dello scudo penale, un'immunità penale relativa ai danni commessi in passato. Da parte loro, la società s'impegna al risanamento ambientale di tutta l'area e alla promessa di rilancio. Ma oggi, il quartiere Tamburi è ancora un agglomerato di case con tetti fatti di amianto, celati dai fumi bianchi, bianchissimi che provengono dai forni dello stabilimento.