Giornata contro la tratta: il modello di riferimento per contrastarla è quello nordico

Oggi ricorre la 9° Giornata Internazionale contro la tratta di persone. Una ricorrenza voluta dalle Nazioni Unite per celebrare il Piano di Azione Globale contro la tratta di persone adottato per la prima volta il 30 Luglio 2010.

Stare dietro a tutte le – meritevoli, per carità! – giornate celebrative è divenuto impegnativo. Tuttavia quella sulla tratta di persone merita di essere approfondita in quanto cela il lungo percorso di emancipazione sull’ostico tema della tratta e delle schiavitù avvenuto negli Stati prima e all’interno delle Nazioni Unite poi.

Partiamo dall’inizio. Durante la tratta atlantica gli schiavi africani erano venduti ai mercanti europei e deportati verso le Americhe, dove erano impiegati nelle piantagioni di prodotti destinati al mercato europeo. Per quattro secoli milioni di persone furono strappate dalle loro terre e fatte schiave. Soltanto pochissimi territori, i più interni, dell’Africa furono risparmiati da questa immensa tragedia che ancora oggi determina la condizione di un intero continente. Dopo anni di dibattiti, di libri – come non ricordare La capanna dello zio Tom, il più famoso romanzo abolizionista della storia -, dopo una sanguinosa e fratricida guerra civile si arrivò all’epilogo. Il 18 dicembre 1865 entrò in vigore il XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti che aboliva la schiavitù.

Successivamente nel mondo iniziarono i primi incontri internazionali sul tema della tratta di persone. Nel 1877 a Ginevra si tenne il primo Congresso della Federazione Internazionale Abolizionista, nel 1899 a Londra si tenne il primo congresso internazionale che si opponeva alla tratta degli schiavi. Fintanto che il 18 maggio 1904, a Parigi, il Congresso Internazionale approvò l’Accordo Internazionale per l’abolizione della tratta degli schiavi bianchi. Dopo la tratta atlantica degli schiavi, il mondo stava conoscendo un’altra terribile piaga: quello dello sfruttamento sessuale.  L’accordo fu firmato da 13 stati europei, tra cui l’Italia, che si impegnavano a monitorare i luoghi – porti e stazioni ferroviarie – in cui donne e bambini potevano essere trafficati.

Nel 1949, a pochi anni dalla loro fondazione, le Nazioni Unite si fecero carico della questione ed approvarono la Convenzione per l’abolizione della tratta di persone e dello sfruttamento della prostituzione. Questo è il primo strumento internazionale che considera ogni forma di prostituzione come una violazione dei diritti umani. Nella prima frase si dichiara che “la prostituzione e il male che l’accompagna sono incompatibili con la dignità umana”.  Una netta presa di posizione sulla questione – ampiamente discussa già nei primi decenni del ‘900 – su prostituzione volontaria e no. Questa Convenzione segnò un cambio radicale nell’approccio allo sfruttamento sessuale. Tuttavia, proprio per questa ragione, ad oggi è stata ratificata solo da 94 paesi su 193 membri delle Nazioni Unite. Meno della metà. Fra gli Stati che non hanno firmato ci sono quelli che hanno legalizzato la prostituzione: Stati Uniti, Germania, Australia, Olanda, Canada, Nuova Zelanda e Austria.

Per molti anni il tema non fu più discusso alle Nazioni Unite. Fino al 15 novembre del 2000, quando la città di Palermo fece da cornice alla firma della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale. Il luogo non fu casuale: qui aveva “sede” la mafia più famosa, Cosa nostra. Ma soprattutto fu il tributo del mondo al lavoro ed al sacrificio degli uomini che lottarono contro di essa. Uno su tutti, Giovanni Falcone, il cui metodo di lavoro è ancora oggi studiato dalle procure di tutto il mondo, in primis gli Stati Uniti. In questa Convenzione si fa riferimento per la prima volta in modo chiaro alla responsabilità del cliente della prostituzione. All’art. 9 del Protocollo di Palermo si dichiara che “gli Stati dovrebbero contrastare la domanda che alimenta tutte le forme di sfruttamento di persone, specialmente donne e bambini, che portano alla tratta”. Un importante riconoscimento avvenuto dopo anni di studi e di osservazioni dei fenomeni di sfruttamento. Tuttavia questa volta l’approccio verso lo sfruttamento sessuale fu più morbido: la prostituzione “volontaria” non era più considerata come sfruttamento sessuale. Per questa azione diplomatica ad oggi è stata ratificata da 190 Stati dell’Onu su 193. Quasi tutti.

Tuttavia la diplomazia ha le sue leggi e non nasconde le evidenze scientifiche riscontrate dai più recenti studi che hanno portato diverse nazioni a considerare la prostituzione come la forma più estrema di violenza di genere. Da che mondo è mondo le prostitute sono donne ed i clienti maschi. Inoltre le cosiddette “prostitute volontarie” soffrono gli stessi abusi ed orrori delle vittime di tratta. Per questa ragione l’attenzione si è spostata sempre più verso i clienti e non solo verso i trafficanti.

Oggi il modello legislativo di riferimento per il contrasto alla prostituzione è quello nordico-svedese. In esso il cliente della prostituta viene considerato corresponsabile dello sfruttamento e pertanto sanzionato, mentre la prostituta è considerata vittima di sfruttamento.

In Italia, a metà degli anni ’90, fu don Oreste Benzi che iniziò a rivolgersi ai clienti maschi italiani: “Le ragazze sono schiave e i clienti sono complici” ripeteva. La battaglia per la liberazione delle donne costrette alla prostituzione in Italia deve ancora essere vinta, ma l’onda di coloro, uomini e donne, che divengono consapevoli dello sfruttamento che si cela dietro la prostituzione diventa sempre più alta.