Tempi bigi per l’inquilino della Casa Bianca

Aspettiamo, prima di dare giudizi, anche se negli Stati Uniti a elevare qualcuno per poi dichiararlo finito ci mettono poco. Joe Biden ha perso le elezioni in Virginia, dove un anno fa staccò Donald Trump di 10 punti ed oggi non gli hanno confermato il governatore uscente. I comizi dell’ultimo momento, cui il Presidente ha partecipato facendo avanti e indietro sul Key Bridge sul Potomack, andavano semideserti. Il suo indice di gradimento è basso come in un test sierologico a 14 mesi dal vaccino. È già caduta una stella?

I tempi, per l’inquilino della Casa Bianca, sono bigi. Il multilateralismo ha fallito con la fuga dall’Afghanistan, la lotta per la difesa dell’ambiente segna il passo al Congresso come alla Cop26, l’economia non ha ancora sentito la frustata della ripresa. Eppure, scriveva in questi giorni l’Economist, sulla legislazione in materia di ambiente e di sostegno al ceto medio Biden ha fatto, in quest’anno scarso, ben più di quanto non avesse fatto nella stessa fase della presidenza l’amatissimo Obama. Il suo problema, allora, sarebbe quello di una cattiva gestione della comunicazione: se non si sa quanto stai facendo, è come se tu non lo facessi. Obama sì che sapeva farsi pubblicità.

E poi i precedenti sono illustri: se la paura è che i democratici perdano malamente le elezioni di metà mandato, ci si ricordi cosa avvenne a Clinton nel ’94, per non dire a Reagan nell’ ’82. Una catastrofe. Eppure entrambi finirono rieletti tra ali plaudenti di folla. In politica, diceva Wilson, una settimana è l’eternità, figuriamoci un anno. I dati economici, appena pubblicati, già danno respiro alla Casa Bianca: in futuro potrebbero migliorare ulteriormente.

Allora, di che ha paura Biden? In fondo ha vinto nelle elezioni, quelle del 2020, più polarizzate e partecipate della recente storia americana. Basta che Trump si ripresenti (e pare intenzionatissimo a farlo) perché tutti coloro che lo detestano tornino compatti a votargli contro (e paiono intenzionatissimi a farlo). Da qui a quel momento, però, ci passano tre anni. Tre volte più di una eternità, e di qui ad allora può essere successo di tutto, dove meno uno se lo aspetta. Vale a dire nel Partito Democratico.

La crisi profonda, che si riverbera sullo scarso indice di gradimento del Presidente e spiega anche in buona parte la sua incapacità di comunicare i suoi risultati, è quella che scaturisce dalle tensioni interne ai democratici. Attenzione: non si tratta solo della divisione tra centristi e moderati da una parte e sinistra alla Ocasio Cortez dall’altra. Si tratta, piuttosto, dell’asse tra centristi e sinistra che stritola i moderati alla Biden, che poi sono quelli che sono riusciti a vincere dopo la sconfitta bruciante di Hillary Clinton nel 2016. Una candidata, la Clinton, sotto la cui egida non a caso la Ocasio Cortez ha mosso, a sorpresa, i suoi primi passi in politica.

Un’alleanza di fatto tra obamiani, clintoniani e un buon settore dell’ala affermatasi con l’onda di Bernie Sanders che stenta a identificarsi con l’ambientalismo pratico del Presidente e, ancor meno, con la sua scelta economica a tutela del ceto medio americano. Soprattutto quest’ultimo punto costituisce un abisso tra uno schieramento e l’altro: la politica economica dell’establishment democratico negli ultimi decenni è stata, sostanzialmente, simile a quella dei repubblicani. Quanto a quella sociale, ci si ricordi degli eccessi del Crime Bill di Clinton del 1996.

Risultato: in un momento in cui il Partito Repubblicano tende a ricompattarsi dietro la leadership (discutibile, ma non è affar nostro) di Trump, i democratici si spaccano sotto la superficie, e gettano le basi per una guerra civile da cui tutti emergerebbero sconfitti. Un ultimo pensiero, che ci tocca più da vicino. Biden ha ricevuto da Papa Francesco il disco verde per la comunione. I vescovi statunitensi che avrebbero dovuto condannarlo stanno per varare un documento – pare dalle anticipazioni – decisamente più morbido. È come se ci si attendesse, ben prima delle prossime elezioni presidenziali, che una sentenza della Corte Suprema rovesci o almeno modifichi radicalmente la “Roe contro Wade” che nel 1973 spalancò le porte all’aborto. Un argomento che sembra fatto apposta per saldare l’ala clintoniana con quella di Ocasio Cortez.