Il mistero di una vita sospesa

Ciclicamente ritorna. A circa dieci anni dalla morte di Piergiorgio Welby, malato di una malattia neurologica degenerativa, che su sua richiesta moriva per mano di un medico, arriva in Aula alla Camera, a fine marzo, il disegno di legge sul “fine vita”. L’attenzione si sposta sul come morire, anziché focalizzarsi sul come vivere dignitosamente. E mentre le famiglie coinvolte devono arrangiarsi facendo turni di assistenza giorno e notte, si torna a parlare di eutanasia.

“Più che gli esperti, dovrebbero parlare quelli che vivono accanto a chi è fragile”, commenta Mariapia Bonanate. Scrittrice e giornalista di Famiglia Cristiana, da dieci anni accudisce il marito colpito dalla Sindrome Locked-in, conosciuta anche come sindrome del chiavistello, di cui si è persa la chiave. “Oggi abbiamo una società che lavora per aiutare la gente a vivere, o per scartare immediatamente coloro che non corrispondono alle regole che questa società si è data: denaro, potere, star bene? C’è tutta una cultura che va contro la vita”. Certo è che la sofferenza e il dolore, vanno affrontati, “continuando la ricerca delle cure palliative, per dare a queste persone fragili, la possibilità di resistere”.

Sono tante le storie di coraggio. Quella di Mariapia e di suo marito è intrisa di amore, un viaggio nell’ignoto “con la farfalla nello scafandro”, che nel 2012 ha trovato la forza di raccontare in “Io sono con te. Il mistero di una vita sospesa” (Mondadori). Succede che la vita ha un prima e un dopo, e niente è più come prima.

Sono 600 in Italia i casi ufficiali di persone colpite da questa rara sindrome, spesso confusa con lo stato vegetativo. “Il risultato apparente è lo stesso – sottolinea – ma c’è una fondamentale differenza. Le persone colpite da Locked-in, in seguito a un ictus, alla base dell’albero cerebrale, non hanno più la parola, non possono muovere niente del loro corpo, neppure un dito, non possono respirare autonomamente, ma rimangono totalmente lucide. Vedono, sentono e capiscono tutto, soprattutto nella fase iniziale”.

E’ stato un evento che ha capovolto le loro vite. Stavano per compiere  anni 30 anni di matrimonio. “Mio marito quando gli è capitato, capiva tutto, vedeva tutto. Nei suoi occhi passava l’angoscia di non poter più muoversi, comunicare”.

E’ stato l’amore a guidarla. Un anno di ospedale per tentare il più possibile la riabilitazione. Alla fine il poter parlare solo con il battito della ciglia, spesso neppure quello. Ma con lui c’era sempre qualcuno. “Una cosa è stata fondamentale per affrontare la malattia, l’essere una famiglia aperta. Nel momento tragico avevamo le porte spalancate, non siamo rimasti soli. Quando si sta bene bisogna vivere bene, aperti verso gli altri, ma nella vita può succedere qualcosa che capovolge la realtà. Se sei predisposta ad avere una rete relazionale con gli altri, puoi creare una nuova vita”.

Così, quando le consigliano di collocare il marito in una struttura, lei non accetta. “Era giusto che continuasse ad essere il centro della nostra famiglia, come era prima”. La sua stanza è al centro della casa, affacciata sulla piazza. “Un cuore pulsante in cui ruota tutto attorno, la più luminosa, lasciando tutti gli oggetti che hanno accompagnato la sua esistenza”.

Arrivati a casa dall’ospedale tutti erano in ansia. “Io piangevo e la mia nipotina di otto anni vicina al letto mi ha detto: ‘Nonna non piangere, il nonno c’è’. E’ stato un lampo nel buio. Una vita c’era, anche se in modo diverso”. C’è stato bisogno di tutta una rete di solidarietà e di cura della persona, organizzata grazie alla determinazione della famiglia. “Abbiamo cercato di formare una piccola comunità tra infermiere e volontari. Una piccola chiesa domestica che ci ha dato una normalità di vita”. Tutto nella latitanza di una rete pubblica che si limita all’assegno di assistenza domiciliare, mentre “in Francia, ad esempio, ti forniscono tutto il personale infermieristico per questo tipo di sindrome”.

“Quando si ama si accetta anche il mistero di una condizione che non capiamo”. Convivere con “la farfalla nello scafandro” le ha fatto scoprire che la vita e la morte sono intimamente legate. “Il fatto di dedicarmi a mio marito mi ha dato una grande forza e libertà interiore. Vivere dalla sua parte, andando là dove lui è adesso, nell’essenziale, nella perdita, nella spoliazione, mi ha dato una dimensione di valori eterni, come se si fosse riempita la nostra intimità personale, la nostra casa, di presenze impalpabili, ma presenti. Mi ha spalancato una dimensione di vita diversa. Sento che in questa stanza arriva tutta l’umanità che è stata spogliata”.