Dopo la fiducia, l’esecutivo pensa ai sottosegretari e ai viceministri

Il copione è stato ampiamente rispettato. Il governo Draghi ha ottenuto quell’ampia maggioranza, tanto alla Camera come al Senato, da mettere in secondo piano qualsiasi ragionamento sui numeri. Sarebbe solo fuorviante. A contare realmente, al termine di questa tre giorni, sono le note politiche emerse dalla prova parlamentare. Ovviamente il titolo di testa spetta al Movimento 5 stelle e alla sua, presunta a nostro avviso, svolta moderata. Perché se con il sostegno a Draghi i pentastellati puntano ad assumere il volto di forza politica green e governista, sotto la grisaglia blu resta l’anima movimentista. Pronta a ribellarsi quando l’esecutivo non sarà più funzionale ai bisogni, e ai disegni, di Beppe Grillo. Le stesse pressioni interne al movimento, finalizzate a trovar una mediazione con i dissenzienti, portate avanti anche da diversi “big” che chiedono di distinguere tra chi si è mosso contro il Movimento rispetto a chi ha detto un no sofferto al governo Draghi, sanno più di rituale politico, e non di reale necessità nella direzione dell’unità.

La liturgia partitica, perché il Movimento è diventato un partito, trova in quel fraseggio sordo e muto la prova del nove. E poco conta l’appello di Beppe Grillo: “Dobbiamo necessariamente effettuare un salto quantico, passare da un regime di equilibrio (che realmente non lo è più) a un altro e l’unità, il patto verde, è l’unica strada”. Un cambio di passo, quindi, resta da capire se formale o sostanziale. Per il leader grillino, dopo la fiducia, chi è rimasto a bordo dovrà remare nella stessa direzione di un Movimento 5 Stelle che da una parte deve portare avanti i suoi temi, ma senza essere una forza anti-sistema. Insomma, chi è uscito oggi non è un problema, i 5 Stelle hanno solo mollato la zavorra, da troppo tempo ingombrante.

L’operazione Draghi, per Grillo, rappresenta una sorta di atto liberatorio. Del resto una politica sconfitta e perdente, bacchettata dallo stesso premier con parole dure, come fece Napolitano quando accettò di essere rieletto al Quirinale, avrebbe dovuto inchinarsi di fronte a ciò. Invece lo ha applaudito, nella convinzione di poter dominare il gioco. Draghi come elemento catartico, i dissidenti del Movimento come prova di normalità. Elementi apparentemente contrapposti, ma speculari fra loro.

Non a caso leggeri smottamenti e piccole frane si registrano anche nel centrodestra. Sono in tutto tre gli esponenti leghisti hanno lasciato il partito di Matteo Salvini e si sono mossi verso Fratelli d’Italia nel giorno della fiducia alla Camera al governo Draghi. Il più inatteso è Gianluca Vinci, leghista di lungo corso, eletto per la prima volta consigliere comunale a Reggio Emilia nel 2009, ex candidato sindaco sempre nella città emiliana, e dal 2015 al 2019 segretario regionale del partito. A Montecitorio da marzo 2018, Vinci ha votato contro la fiducia all’esecutivo Draghi, annunciando il suo ingresso nel partito di Giorgia Meloni. In dissenso con la scelta di Salvini di appoggiare l’ex governatore della Banca centrale europea, anche l’eurodeputato calabrese Vincenzo Sofo, fidanzato di Marion Le Pen, e il capogruppo in Consiglio regionale della Basilicata, Tommaso Coviello. Sofo ha lasciato il gruppo dei sovranisti (Id), a Strasburgo, per passare ai Conservatori (Ecr) dove siedono gli esponenti di FdI.

Fraseggi politici da non sottovalutare, pur non modificando la sostanza del voto a Draghi. Al quale, ora, spetta di governare. Prima, però, c’è da placare la pancia dei partiti che lo sostengono. Nei prossimi giorni l’esecutivo dovrà varare le nomine di sottosegretari e viceministri. Necessari anche per far ripartire i lavori a Camera e Senato su provvedimenti urgenti. Saranno tutte decisioni e scelte ponderate, pertanto, è molto probabile che il dossier si chiuda entro martedì con il giuramento a palazzo Chigi. Sempre che l’intesa fra le segreterie non sia troppo complicata. Lo schema da proporre al premier si basa sullo schema cencelliano dei 40 posti da sottosegretario: 13 al M5S, 7 ciascuno a Pd, Lega e Forza Italia, un paio a Italia viva, 1 a Leu e una quota riservata ai piccoli partiti: centristi, Maie, +Europa. Con una regola da rispettare: la parità di genere deve avere una quota, avrebbe chiesto Draghi alle forze politiche, non al di sotto del 40 per cento. Perché dopo le belle parole da regalare al Paese arrivano i fatti veri. Per loro, per i partiti.