L’Aquila, lezioni apprese (e non) a 15 anni dal terremoto

Immagine di repertorio. Foto di Carl Campbell su Unsplash

Sono passati 15 anni dal terremoto de L’Aquila. Il 6 aprile del 2009 una scossa di magnitudo 6.3 distrusse ampie parti della città abruzzese e delle frazioni limitrofe, ma soprattutto causò la morte di 309 persone – con 1600 feriti – e lasciò senza casa 65mila residenti. Di questi, oltre diecimila vivono ancora nelle Case (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili) o nei Map (Moduli abitativi provvisori), strutture i cui costi di manutenzione, non irrisori, drenano risorse alla vera ricostruzione.

Quando si fa il bilancio del sisma aquilano si parla spesso dei 13 miliardi di danni stimati, ma c’è un altro dato che non si cita mai. Quello dello svuotamento di un intero territorio. Un territorio appenninico, una cosiddetta area interna che, come molte altre aree d’Italia, si sta spopolando. Solo che in questo caso non si tratta di un fenomeno né graduale né volontario: al contrario, l’abbandono è stato forzato e repentino. Se i tempi della ricostruzione si protrarranno ancora a lungo, rischiamo di avere paesi e frazioni ricostruite e ristrutturate ma completamente vuote o abitate solamente da poche famiglie. È un tema che mi è capitato spesso di affrontare anche per il terremoto del centro Italia del 2016. E non è un caso. Al centro, infatti, c’è sempre l’ingombrante ombra di una ricostruzione lenta nei tempi e bizantina nelle procedure.

Torniamo ai dati de L’Aquila: dopo 15 anni la ricostruzione privata è all’80%, mentre quella pubblica al 45%; solo il 30% delle attività economiche del centro storico sono state rimesse a nuovo. Tutte le altre o si sono spostate o hanno chiuso, contribuendo alla desertificazione sociale ed economica. A frenare la ricostruzione – e questo non lo scopriamo oggi – sono state inefficienze, corruzione e la mancanza di un disegno urbanistico adeguato e coerente con una città d’arte importante, capoluogo di regione, e con una forte impronta urbana ancorata al passato. La lezione del 2009 ci ha insegnato che, per una ricostruzione efficiente, è necessario stimare il danno in modo coerente, basandosi sul nesso di causalità tra terremoto e danno, conoscere la storia del fabbricato, servono procedure burocratiche più snelle e controlli capillari e incrociati, così come una banca dati degli edifici, dei professionisti e delle imprese.

Una lezione non appresa. La strada che ha preso la ricostruzione del centro Italia post-sisma 2016 infatti non è troppo diversa: secondo un’analisi della struttura commissariale i costi per la riparazione sono di 30 miliardi di euro per 60mila interventi. A rallentare i cantieri è stato anche il Superbonus 110%, che ha dirottato molte imprese e professionisti verso lavori più remunerativi. Conosciamo ormai con discreta precisione le caratteristiche sismotettoniche d’Italia, sappiamo come il substrato geologico può aggravare il danneggiamento delle nostre strutture e infrastrutture. I territori più colpiti, o più soggetti a terremoti, hanno molte caratteristiche in comune anche a livello socioeconomico. Questo è un aspetto che può facilitare le attività di prevenzione.

A questo proposito è importante ricordare che a L’Aquila sono crollati molti palazzi di epoca moderna, provocando la morte di moltissimi aquilani convinti di abitare in strutture più sicure rispetto a quell’edilizia povera che caratterizza gran parte delle frazioni. Cosa significa? Che nelle aree colpite duramente da un terremoto, la prevenzione sismica comincia proprio da una ricostruzione efficace, realizzata con tecniche e materiali di qualità e tecnologie adeguate al rischio, possibilmente identificato attraverso una capillare microzonazione sismica, dopo la quale, comunque, non dovrebbero mai mancare studi ed indagini sito-specifiche che sono quelle che permettono di risolvere problematiche impreviste e particolari.