Rotta per Suez: i risvolti economici della guerra

La minaccia dei ribelli Houthi persiste nel Canale. Altre compagnie di navigazione optano per nuove rotte, con contraccolpi micidiali sui costi di approvvigionamento. E l'economia globale trema

Portacontainer Suez
Foto di 3238642 da Pixabay

Atteggiamenti più prudenti, altri meno. Qualcuno ha persino deciso di continuare a percorrere la via, nonostante tutto. Il Canale di Suez, infatti, non rappresenta una mera alternativa ma, a conti fatti (letteralmente), un passaggio obbligato per evitare di pagare lo scotto, in termini economici, di un eventuale ritardo nella distribuzione delle merci sui mercati internazionali. In questo senso, la minaccia dei ribelli Houthi costituisce però una variabile estremamente pericolosa, visto il perdurare del conflitto tra Israele e Hamas, quest’ultima sostenuta, fra gli altri, proprio dal gruppo yemenita. A metà dicembre, come atto concreto di sostegno alla causa palestinese (o, più precisamente, di Hamas stessa) i militanti Houthi avevano iniziato una sistematica offensiva contro le navi cargo transitanti tra il Mar Rosso e il Mar Mediterraneo, convincendo in pochi giorni i colossi della navigazione mercantile a rivolgere altrove le prue delle proprie imbarcazioni.

Minaccia sul Canale di Suez

Nonostante un tentativo di riprendere la via di Suez, anche la danese Maersk si è infine convinta a lasciar perdere, dopo che il 30 dicembre una portacontainer era finita nel mirino dei ribelli yemeniti che, come già avvenuto nelle settimane precedenti, avevano tentato l’assalto al mercantile, incorrendo stavolta nell’intervento degli elicotteri della missione americana Prosperity Guardian, provvidenziale per scongiurare il successo dell’aggressione. L’incidente, però, ha persuaso la direzione della Maersk a cambiare rotta, convincendo peraltro altre compagnie che avevano tentato di sfidare la minaccia Houthi, come la tedesca Hapag-Lloyd, a fare altrettanto. In sostanza, chiaramente, piuttosto che mettere a repentaglio l’incolumità dei propri equipaggi, le compagnie sembrano convenire che un inevitabile contraccolpo sull’economia mondiale sia preferibile. E questo, nonostante le ripercussioni sugli equilibri internazionali siano evidenti, ancor prima di avere in mano un calcolo effettivo.

Rischio escalation

Anche perché, non è chiaro fino a quando il Canale di Suez rappresenterà più una minaccia che un’opportunità per il traffico di portacontainer. Se non altro per via del rischio escalation che coinvolge direttamente l’area del Mar Rosso, tratto di mare obbligato sia in entrata che in uscita dal passaggio di collegamento con il Mediterraneo, e dove l’Iran, sostenitore degli Houthi, ha annunciato di aver inviato a incrociare addirittura una nave da guerra. Una risposta, di fatto, alle missioni statunitensi in loco e, per estensione, all’intenzione della Danimarca, Paese della Maersk, di sostenere direttamente Washington nelle operazioni, inviando navi della Marina militare sul posto. In sostanza, al momento, la possibilità che le acque al di qua del Canale di Suez si trasformino nell’ennesima estensione – anche se per ora potenziale – del conflitto tra Israele e Hamas, sembra più concreta di un eventuale ripristino dei traffici marittimi in sicurezza.

Equilibri alterati

Uno scenario già di per sé sufficiente ad alterare gli equilibri economici mondiali. L’attacco al mercantile della Maersk, infatti, ha contribuito a far schizzare in alto i prezzi del petrolio, coi mercati preoccupati dell’eventuale reindirizzamento in massa di navi verso il Sudafrica. Basti pensare che la semplice aspettative di una rotta più lunga e di tariffe più elevate per i prossimi viaggi, ha portato le azioni di Maersk a salire del 6,3%, mentre quelle di Hapag-Lloyd sono salite del 5%. Secondo le stime, per ogni viaggio di andata e ritorno, il costo del carburante aumenterebbe di circa un milione di dollari. A tale risvolto economico, andrà aggiunto quello relativo ai ritardi nelle consegne che, seppur calcolato, potrebbe contribuire ad allungare il periodo di inflazione.

Secondo la società israeliana Freightos, specializzata nella logistica e nel trasporto di merci, il rischio non è solo di un rincaro dei costi di carburante e dei carichi stessi ma anche di congestione dei porti, con ulteriore dispendio in termini di approvvigionamento. L’oscillazione dei prezzi è già significativa: in media, secondo la società, circa 5 mila dollari (rispetto ai 3.500 di qualche settimana fa) per l’invio di un container standard da Shanghai a New York, 2.400 fino a Rotterdam.

Suez ostruito

Riavvolgendo il nastro al 23 marzo 2021, giorno dell’incidente che ha visto coinvolta la gigantesca portacontainer Ever Given, della taiwanese Evergreen Marine Corporation, potrebbe essere più semplice capire il peso specifico, a livello internazionale, che il taglio dell’istmo di Suez ha avuto e continua ad avere negli equilibri dell’economia mondiale. La spinta dei venti aveva infatti portato l’enorme cargo a deviare la propria rotta di qualche grado di troppo, rendendo l’inclinazione della prua fuori controllo, quel tanto che è bastato per incagliare lo scafo quasi perpendicolarmente rispetto al Canale stesso.

Un’ostruzione che aveva provocato, già nell’immediatezza, un ingorgo di navi cargo che, nel corso dei sette giorni di blocco, sarebbe arrivato a coinvolgerne ben 400. Molte delle quali impossibilitate a fare dietrofront. Le altre, persuase a puntare verso l’estrema punta meridionale dell’Africa, ripristinando di fatto le rotte dell’era delle scoperte geografiche, azionando il pallottoliere dei danni economici. Un conteggio che, a un mese circa dalla risoluzione della crisi, avrebbe segnato qualcosa come 900 milioni di dollari di danni, dovuti perlopiù agli enormi ritardi accumulati a causa dell’impossibilità di raggiungere il Mediterraneo tramite il passaggio di Suez.

Stavolta, il Canale sembra trovarsi al centro di un contesto di crisi internazionale che, alla lunga, rischia di prendere per la gola le economie globali. L’ennesima tagliola piazzata dalle guerre in corso, che rischia di intrappolare un numero di attori proporzionale agli interessi economici della zona.