Strage di Piazza Fontana: un indubbio tornante nella storia dell’Italia repubblicana

Venerdì 12 dicembre del 1969, a Milano, nel primo pomeriggio di una giornata fredda e piovosa, nella sede di Piazza Fontana della Banca Nazionale dell’Agricoltura, deflagrò un potente ordigno nel salone centrale, affollato di imprenditori, coltivatori e allevatori venuti in città per operazioni bancarie nel giorno di mercato. Un grande boato, schegge di vetro che colpiscono i presenti terrorizzati e un cratere nel pavimento di quasi due metri. 14 persone sono uccise sul colpo, altre due, ferite gravemente morirono dopo alcune settimane, mentre una terza, morrà un anno dopo per le lesioni subite nell’attentato. A questi vanno aggiunti quasi 100 feriti. A provocare la tremenda esplosione – si scoprirà quasi immediatamente – sono stati 7 chilogrammi di gelignite compressi in una scatola metallica e la gelignite è molto più potente della dinamite.

Nella stessa giornata, nel centro di Milano, fu trovato un ordigno inesploso nella filiale della Banca Commerciale Italiana di Piazza della Scala e, nel cuore della capitale, scoppiarono tre bombe: una all’Altare della Patria e la seconda sui gradini del Museo del Risorgimento, collocato anch’esso nel complesso del Vittoriano; la terza nel seminterrato della Banca del lavoro in Via Veneto. Il bilancio, in questo caso non fu drammatico: lievi danni e 14 feriti.

Mirco Dondi, nel libro 12 dicembre 1969, pubblicato dall’editore Laterza nel 2018, ha ricostruito i drammatici eventi di quella giornata con uno sguardo incrociato sulle vittime, gli esecutori, i servizi segreti e i politici.

Inizialmente furono indicati come autori dell’attentato il mite ferroviere Giuseppe Pinelli, già staffetta partigiana e lo sprovveduto ballerino Pietro Valpreda, entrambi iscritti a un circolo anarchico di Milano. Premerono in tal senso sia il questore di Milano sia il ministro degli interni Franco Restivo, mentre il ministro del lavoro Carlo Donat Cattin inutilmente criticò “la tendenza di ricercare tra gli anarcoidi, tralasciando la destra”.

Guido Crainz, nella sua Storia della repubblica (Donzelli 2016), documenta come, all’indomani della strage, si effettuarono 310 perquisizioni domiciliari di “elementi di sinistra”, e solo 57 di “elementi di destra”. Furono il frutto d’indagini superficiali e frettolose, ma anche di depistaggi inseriti in un meccanismo costruito ad arte, amplificato dall’informazione da gran parte della stampa e dalla televisione di Stato, che mirava, consciamente o inconsciamente a diffondere un clima di paura e incertezza, a mantenere la sinistra comunista sempre fuori dal governo del paese (è la famosa conventio ad excludendum) e a criminalizzare l’estrema sinistra, legittimando una deriva autoritaria dello Stato.

Valpreda resterà in carcere fino al 1972, mentre Pinelli, tre giorni dopo il fermo, muore, cadendo dal quarto piano della questura in una pausa degli interrogatori condotti dal commissario Luigi Calabresi. Questi, a sua volta, accusato ingiustamente di esserne stato responsabile, è ucciso in un attentato, il 7 maggio del 1972,  del quale sono stati accusati Ovidio Bompressi e Leonardo Marino come esecutori e Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, tutti di Lotta Continua, come mandanti. Pinelli e Calabresi sono, in fondo, entrambi vittime anch’essi dell’attentato di Piazza Fontana.

Le indagini, grazie anche alle pressioni della pubblica opinione democratica, si indirizzarono su ambienti dell’eversione neofascista, in particolare sul gruppo padovano di Franco Freda e Giovanni Ventura, nonché sul giornalista Guido Giannettini, sul libro paga dei servizi segreti italiani. I processi si protrarranno per quasi 40 anni, svolgendosi a Roma, poi a Milano, a Catanzaro e, infine, a Milano, dove la Corte d’Assise condanna all’ergastolo Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, stabilendo in maniera definitiva la responsabilità della destra estrema nella strage.

Anche la durata di questi processi sono una conferma del fatto che l’attentato della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana costituisce un indubbio tornante nella storia dell’Italia repubblicana. Apre, infatti, una fase nuova, con molti misteri insoluti, ponendo fine – è stato scritto – alla “età dell’innocenza”, nella quale la violenza terroristica diventa strumento di progetti oscuri di eversione della convivenza pacifica e delle istituzioni democratiche.

Costituisce il primo terribile segnale della strategia della tensione. L’espressione strategy of tension apparve per la prima volta sull’«Observer» del 14 dicembre nell’articolo degli inviati in Italia proprio per dei reportages sulla strage di Piazza Fontana.

È significativo che lo storico, già citato, Marco Dondi che insegna nell’università di Bologna, la città dove l’attentato alla stazione ferroviaria del 2 agosto 1980, provocò 85 vittime e oltre 200 feriti, abbia dato il titolo, L’eco del boato a una sua storia della strategia della tensione, pubblicata sempre da Laterza.

Pier Paolo Pasolini, del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita, in un articolo giustamente famoso, Che cos’è questo golpe? pubblicato su “Il Corriere della Sera”, il 14 novembre del 1974, denunciava il coinvolgimento di apparati dello Stato e di settori delle forze armate e di polizia e, ancor più dei servizi segreti italiani e americani, nelle stragi compiute dai neofascisti, da Piazza Fontana alla bomba del treno Italicus del 4 agosto 1974. Amaramente, però, precisava: “Io so ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto quello che succede, di conoscere tutto ciò che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.

Agostino Giovagnoli, che insegna proprio a Milano, nel suo libro, La Repubblica degli Italiani 1946-2016 (Laterza 2016), sulla base delle più mature acquisizioni storiografiche, ha proposto sulla strage di Piazza Fontana una ricca riflessione che merita di essere citata: “Nel dicembre del 1969, la strage di Piazza Fontana segnò l’inizio della strategia della tensione, ispirata dall’obbiettivo di determinare un forte spostamento si consensi verso i partito fautori dell’ordine o a favore di nuove forme istituzionali, gettando discredito non solo verso i comunisti ma anche verso le correnti riformistiche della coalizione di centro sinistra. Nei primi anni Settanta venne realizzata una serie drammatica di azioni terroristiche, dall’attentato di Piazza della Loggia a quello del treno Italicus, la cui matrice neofascista non apparve immediatamente evidente, anche pe l’opera di depistaggio realizzata da apparati dello Stato. La strategia della tensione poté inoltre contare su una rete di complicità internazionali, favorite dai servizi segreti di vari paesi occidentali. Negli stessi anni, la preoccupazione per la crescita del ruolo del Pci in Italia fu manifestata esplicitamente da governi di paesi alleati tra cui quello americano. Tutto ciò contribuì a spostare verso destra la politica italiana, con le elezioni anticipate e il governo centrista Andreotti-Malagodi del 1972. Nel tempo però la strategia della tensione venne condannata con crescente determinazione dalla classe dirigente e dall’opinione pubblica, coagulate da una rinnovata mobilitazione antifascista”.