La politica monetaria restrittiva funziona?

La sede della BCE. (© MichaelM da Pixabay)

Nell’ultimo anno, finora, sono stati otto gli aumenti del tasso di interesse da parte della Banca Centrale Europea, per contrastare lo shock inflazionistico che a ottobre 2022 aveva portato a un aumento dei prezzi in Eurozona dell’11% anno su anno. Il tasso di riferimento è così passato da un livello sostanzialmente negativo al 4% in pochi mesi e, ascoltando le parole del Governatore Christine Lagarde, non è affatto scontato che la stretta sia terminata. Ma è stato utile tutto questo? Se si guardasse meramente ai numeri potrebbe sembrare di sì, poiché il tasso di inflazione è passato dal livello a due cifre di ottobre al 5% circa di oggi ma la risposta non è certamente così pacifica.

Era evidente che la ripresa post-pandemica avrebbe provocato un surriscaldamento dei prezzi e che sarebbe stato necessario uscire dalla situazione “anomala” di tassi negativi che si aprì all’indomani della crisi del 2011 con una normalizzazione della politica monetaria ma, nel frattempo, qualcosa è accaduto. A volte la ricerca di correlazioni senza cercare un nesso causale porta a risultati assurdi come il celebre grafico che mostra una distribuzione quasi sovrapposta tra i ricavi totali delle sale giochi e il numero dei dottorati in computer science negli USA ma questo potrebbe essere un caso differente.

Nel gennaio 2021 i prezzi energetici cominciarono a salire, proprio per la ripresa dopo il Covid e la fine delle varie misure di contenimento fino a lì adottate dagli stati. L’energia è un bene particolare poiché non è possibile scorporarlo dal paniere di calcolo dei prezzi (nonostante le banche centrali lo facciano, pedestremente, nel calcolo della cosiddetta “inflazione core” che rappresenta l’andamento dei prezzi con l’esclusione di alimentari, molto variabili anche solo per questioni climatiche, tabacco e alcol, che risentono delle politiche fiscali dei vari governi, e, appunto, l’energia) poiché permea qualsiasi processo produttivo, senza energia non si possono produrre beni e servizi e, per questo, il suo apporto nella formazione dei prezzi non può essere tralasciato nei calcoli semplicemente eliminando il peso delle bollette.

Guardando la curva relativa all’inflazione in Eurozona si nota perfettamente che questa inverta la sua pendenza a ottobre 2022, quando raggiunse il massimo a + 11% anno su anno, esattamente in contemporanea con l’inizio della discesa dei prezzi energetici e così ha continuato fino ad oggi. L’obiezione che possa sorgere, però, è abbastanza chiara perché i prezzi del gas sono tornati a un livello poco superiore alla media del decennio 2010-2011 e il petrolio è tornato a un livello più che accettabile ben al di sotto dei massimi raggiunti durante le crisi del 2008 e del 2011 mentre l’inflazione rilevata è ancora piuttosto elevata, ben al di sopra delle medie degli ultimi vent’anni.

Il punto vero è che la discesa dei prezzi, contrariamente alle impennate, è piuttosto lenta, non per questioni di speculazione, che ci potrebbe anche essere in alcuni settori sia chiaro, ma anche e soprattutto prudenziale da parte degli operatori dovendo, da un lato recuperare i costi sostenuti con la crescita repentina dei prezzi precedente e dall’altro mantenere delle precauzioni in caso di nuova impennata: da qui la più lenta discesa del livello generale dei prezzi rispetto quello specifico dell’energia. E l’aumento dei tassi? Ecco, quello sembra non aver avuto quasi alcun reale apporto al raffreddamento della dinamica dei prezzi, per il momento.

Questo perché l’inflazione un fenomeno monetario che indica la perdita di valore della valuta perché la domanda di moneta è inferiore all’offerta, come ricordava Milton Friedman, infatti, “L’inflazione è sempre e comunque un fenomeno monetario nel senso che è e può soltanto esser prodotto esclusivamente da un aumento più rapido della quantità di moneta che della produzione. […]” a cui, però, aggiunse in seguito che “Un tasso stabile di crescita monetaria ad un livello moderato può creare una struttura nella quale un paese può avere poca inflazione e molta crescita. Ciò non produrrà la stabilità perfetta; non produrrà il paradiso sulla terra; ma può dare un importante contributo ad una stabile società economica”. Il punto chiave sta qui.

Una politica monetaria meramente restrittiva rende meno conveniente il ricorso al credito e, contemporaneamente, riduce i redditi reali disponibili degli agenti indebitati (aziende e famiglie) portando, così, a una riduzione di investimenti e consumi. Questo provoca un rallentamento del sistema economico e, in linea teorica, potrebbe spingere il continente in una nuova recessione non avendo ancora recuperato il gap causato dalla crisi pandemica. Se è vero che un elevato tasso di inflazione rappresenti un pericolo per redditi e patrimoni, cosa che potrebbe portare a diverse distorsioni nel futuro, è anche vero che la gestione della politica monetaria erratica e priva di un reale obiettivo, che non sia il raggiungimento di quel 2% come livello desiderato di inflazione, potrebbe portare a danni anche maggiori, tra l’aumento dei default di aziende e famiglie e il conseguente aumento dei crediti deteriorati che potrebbe portare a una nuova crisi del settore creditizio, prima, e sistemica poi.

La gestione degli shock sul livello dei prezzi è un abile gioco di bilancini che deve essere portato avanti senza pregiudizi ideologici e con l’obiettivo di massimizzare i risultati a  livello complessivo e non solo riferendosi a un unico comparto: in pratica è inutile riportare il tasso di inflazione velocemente nei binari obiettivo se, nel frattempo, si danneggiasse il sistema economico aprendo la strada a una crescita eccessiva della disoccupazione e al crollo di produzione e servizi ma, specularmente, è ugualmente dannoso lasciare crescere repentinamente i prezzi per evitare il blocco degli investimenti e dei consumi, il risultato è, in entrambi i casi, quello di un impoverimento generale.

La cosa singolare, poi, è che l’azione della BCE lavori di “effetto annuncio”, cioè il Governatore dichiara future strette ma senza mai indicare un percorso coerente o obiettivi intermedi, ammettendo con il ritornello “valuteremo sui dati” che si navighi alla cieca, senza un reale piano d’azione, spesso comunicando futuri ritocchi al tasso di interesse prima ancora che i dati su produzione, consumi e andamento dei prezzi siano disponibili e ancor più spesso travalicando il proprio ruolo tentando di dirigere le decisioni di imprese o, addirittura, le politiche economiche degli Stati membri. Ma perché questo?

Per agire sulle aspettative di inflazione che, come indicato sopra, comunque non si curano di alcuna delle dichiarazioni della BCE, semplicemente perché l’istituto monetario e il suo Governatore, Christine Lagarde, sono oggi poco credibili e, forse, sarebbe ora di cominciare a prenderne atto e cercare di correre ai ripari, anche cambiando, con un’azione diretta del Consiglio Direttivo, prima della scadenza i vertici a Francoforte.