I Masai, da paladini della libertà a souvenir del loro passato

Un popolo dalle tradizioni ancestrali ma non più impermeabile al mondo moderno: chi sono oggi i Masai

Masai

Il popolo dei Masai, tipicamente guerriero, vive nelle zone di confine fra Tanzania e Kenya ed è, attualmente, messo alla prova per salvare le tradizioni e l’indipendenza difese nel passato. Si tratta di una popolazione che vive isolata, in villaggi di capanne molto semplici, estraniandosi dalla modernità. La struttura sociale è fondata sul patriarcato, sull’autorità maschile. Nella loro cultura, in controtendenza rispetto alla deriva del mondo occidentale, rivestono assoluta importanza, in ogni aspetto della vita, gli anziani.

Risultano, nella cultura popolare, più aggressivi degli altri popoli limitrofi; questo, probabilmente, è dovuto a delle droghe per l’iniziazione dei giovani. I Masai avevano, infatti, una grande padronanza e conoscenza nell’uso di potenti droghe ricavate da radici e altri prodotti della natura. L’effetto di queste sostanze era sorprendente e donava al guerriero (moran), sin dall’età giovanile dell’iniziazione militare, uno stato di eccezionale grinta, cattiveria, assenza di paura che sconcertava sia le popolazioni vicine sia i colonizzatori.

Per alcuni, invece, la loro ferocia è stata amplificata e demonizzata perché sono stati unici nel non farsi sottomettere all’uomo bianco.

Ilaria Beraldi e Cristina Pedrinzani, due giovani ragazze toscane, hanno sposato due guerrieri Masai e hanno scritto un libro che si intitola “Sotto il cielo di Zanzibar”. Nel romanzo, pubblicato da “Dialoghi” nello scorso ottobre, si sviluppano storie e racconti ambientati in Africa, in particolare riferiti al mondo dei Masai per renderlo, così, più conosciuto.

I Masai eseguono, ancora, pratiche di mutilazione sessuale nei confronti delle donne. In questo, la reazione della comunità internazionale e dell’opinione pubblica sta iniziando a ottenere risultati sul piano culturale e, di conseguenza, su quello pratico.

Proporre, come avviene con frequenza nei tour organizzati, visite guidate presso le loro abitazioni, per conoscere usi, costumi e tradizioni, dovrebbe esser preceduto da una doverosa abiura e rinuncia di queste gravi pratiche. Nel caso contrario, non si può parlare di visita culturale ma di indifferenza e la misura più corretta sarebbe boicottare tali sopralluoghi turistici, con adesione convinta di tour operator e vacanzieri.

L’AMREF (organizzazione medica non governativa e internazionale, volta a salvaguardare la salute della popolazione africana) organizza, ogni anno, il cosiddetto “Rito di passaggio alternativo”, in cui le ragazze Masai celebrano il raggiungimento dell’età adulta con feste e riti senza la pratica dell’infibulazione, la mutilazione genitale femminile (MGF in italiano, FGM è l’acronimo inglese di female genital mutilations). L’iniziativa vuole essere un esempio per tutta l’Africa (e le altre zone del mondo in cui è praticata dai migranti), attraverso lo stimolo alla consapevolezza, avviato coinvolgendo tutti i ruoli sociali delle comunità, affinché la mutilazione scompaia completamente.

La stessa organizzazione precisa che il fenomeno dell’infibulazione “coinvolge oltre 200 milioni di donne, di cui 44 milioni sono bambine con meno di 14 anni di età”.

È importante analizzare il lungo “Rapporto sullo stato della popolazione nel mondo 2010”, fornito dall’UNFPA (Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, organizzazione internazionale per la tutela di giovani e donne, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo).

A pagina 68, in particolare, si legge “Organismi globali per i diritti umani in modo inequivocabile condannano le MGF, eppure 4,1 milioni di ragazze e donne rischiano di esserne sottoposte nel solo 2020. Circa 200 milioni di ragazze e donne oggi viventi hanno subito una qualche forma di mutilazione genitale in 31 Paesi – sofferenza non solo al momento ma anche per una mancanza di supporto e servizi per soddisfare le successive esigenze in corso per l’assistenza sanitaria fisica e mentale. Le Nazioni Unite si battono per la completa eliminazione della pratica entro il 2030, nell’ambito dell’obiettivo di sviluppo sostenibile, riconoscendo l’effetto positivo che ciò avrebbe sulla salute, dignità, istruzione e lo sviluppo economico di ragazze e donne”.

A pagina 72, si conferma l’estensione in tutto il mondo “Praticato in tutte le regioni la MGF è concentrata nel continente africano, dalla costa atlantica al Corno d’Africa, ma è anche diffusa in Paesi come l’Iraq e lo Yemen, e in alcuni Paesi asiatici, come l’Indonesia, dove, secondo una stima, il 49% delle ragazze di 11 anni o più giovani sono state sottoposte a MGF (Indonesia, 2013). Con i livelli record di migrazione nell’ultimo decennio, questa dannosa pratica non è più limitata ai Paesi del Sud del mondo. Gli ultimi dati disponibili mostrano che la percentuale di donne di età compresa tra 15 e 49 anni che sono state sottoposte a MGF varia da circa l’1% in Camerun (a partire dal 2004) e Uganda (dal 2011), al 90% o più a Gibuti (dal 2006), Egitto (dal 2015), Guinea (dal 2018) e Mali (dal 2018). La MGF si ritrova anche, a esempio, in Australia, Unione Europea, Giappone, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti […] 513.000 ragazze e donne negli Stati Uniti erano a rischio o sono state soggette a MGF nel 2012, attribuendo la variazione principalmente all’aumento dell’immigrazione da Paesi in cui è praticato”.

La mentalità sta cambiando e nelle comunità dei Masai aumentano, sia tra gli uomini sia tra le donne, coloro che si oppongono alla mutilazione. Agire anche all’interno, in modo endogeno, è la chiave per risolvere il dramma.

Un esempio importante è stata Nice Nainlantei Leng’ete, una ragazza Masai fuggita alla mutilazione e attivista per l’eliminazione della barbarie. Il contributo significativo è rappresentato dall’accettazione da parte del suo popolo, anche tra gli uomini, del nuovo ruolo ricoperto e dello sforzo profuso, visto come un valore e non come un tradimento alla tradizione.

Del resto, la stessa comunità non è più impermeabile al resto del mondo e, lentamente, si trasforma, abbandonando antiche e radicate abitudini, come quella legata alla stessa condizione di vita, da nomade a stanziale, anche per difendere meglio il proprio territorio dalla razzia e dalla conquista di speculatori locali e stranieri.

L’adattamento al resto della popolazione residente in Tanzania e in Kenya risulta diffuso, nello stile di vita, nelle abitazioni, nell’attività lavorativa, nei costumi e nella religione.

Il turismo riveste sempre maggiore importanza e i Masai sono sempre più inclini a conservare, seppur per esigenze “scenografiche”, le antiche ritualità e ostentare anche l’aspetto, sempre più esteriore, per cui sono noti al mondo: quello di comunità indomita e feroce nel mantenere libertà e indipendenza.

Crocevia nelle rotte della schiavitù, i Masai si sono battuti caparbiamente, più di tutti, nel combattere la piaga e impedire che alcuni di loro fossero portati via.

I proverbi di stampo “pedagogico” non mancano nella regione dei Masai, uno di questi recita “Per educare un bambino occorre tutto il villaggio”.

Un popolo che si è reso paladino irriducibile della propria libertà, dell’indipendenza, del rispetto, della lotta alla schiavitù, a costo di “mostrare i denti”, senza negoziare, costituendo un esempio e una speranza per tutto il mondo ha, di contro, rappresentato una delle tante comunità africane responsabili della mutilazione femminile.

Negli ultimi tempi, il loro futuro è incerto e si dibatte fra una strenua difesa delle antiche tradizioni e una contaminazione dello stile di vita che notano intorno. Il turismo fotografa, meglio di altri indicatori, la loro realtà attuale: attori che rinnovano le proprie tradizioni e costumi a beneficio degli obiettivi di telecamere e fotocamere. La loro identità, difesa strenuamente, orgogliosamente, in modo esemplare, per secoli, dinanzi a nemici altrettanto feroci, sta cedendo di fronte al denaro.