Generazione Z e social challenge: il passaggio dal web alla strada

L’intervista di Interris.it alla dottoressa Adelia Lucattini, psichiatra e psicanalista della Società psicanalitica italiana (Spi)

Nel lato sx Foto di Firmbee.com su Unsplash

Nel corso degli ultimi anni sono stati diversi i casi in cui si sono accesi i riflettori su vicende che riguardavano ragazzi coinvolti nelle social challenge. C’è un numero: 243mila. Sono i giovani e giovanissimi che hanno preso parte, almeno una volta nella vita, a una sfida social pericolosa. Si tratta del 6,1% degli studenti tra gli 11 e i 17 anni.

Lo studio

I dati sulle social challenge sono stati raccolti in uno studio epidemiologico realizzato dal Centro nazionale dipendenze e doping (Cndd) dell’Istituto superiore di sanità (Iss) con il supporto del Dipartimento delle politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nell’ambito del progetto dipendenze comportamentali della cosiddetta generazione Z. Il fenomeno sembra riguardare maggiormente i ragazzi e le fasce di età più giovani. Per l’indagine, realizzata con Explora ricerca e analisi statistica, è stato intervistato un campione di oltre 8.700 studenti tra gli 11 e i 17 anni, su tutto il territorio nazionale. Suddividendo le fasce di età in 11-13 e 14-17 anni, si è osservato che tra i primi la prevalenza è del 7,6% (129.310 studenti) e tra i secondi del 5% (113.849), passando dall’8% tra gli studenti di 11 anni al 4,3% tra i diciassettenni. Tra i maschi di 11-13 anni la prevalenza è del 10% (pari a 87.802 studenti) e del 6,1% (pari a 71.544) tra i maschi 14-17 anni. Tra le studentesse, rispettivamente del 5,3% tra le 11-13enni (43.923 studentesse) e del 3,3% (37.049) tra le 14-17enni. Nella ricerca ci si è inoltre focalizzati anche sulle caratteristiche dei ragazzi con un profilo di rischio e comportamenti legati all’utilizzo di Internet.

L’intervista

Per conoscere meglio cosa spinga i giovani e i giovanissimi a lanciarsi in social challenge pericolose, Interris.it ha intervistato la dottoressa Adelia Lucattini, psichiatra e psicoanalista della Società psicoanalitica italiana (Spi).

Oltre 240mila giovanissimi tra gli 11 e i 17 anni hanno partecipato almeno una volta nella vita a una sfida social pericolosa. Come commenta questa cifra?

“È un dato allarmante in numeri assoluti, che va inquadrato in una questione più ampia, dato che nello studio sono inclusi sia i pre-adolescenti che i giovani adolescenti, e che così non riusciamo a distinguere i comportamenti parasuicidari, quelli dei giovani depressi che sfidano la morte o che sono affetti da un disturbo bipolare non riconosciuto e vivono un parziale scollamento dalla realtà, da chi non capisce che la sfida è pericolosa, chi ci si ritrova suo malgrado, quelli che sono trascinati dagli amici e quelli che sono solo curiosi. La sperimentazione di qualcosa di trasgressivo almeno una volta nella vita, soprattutto durante l’adolescenza, è una cosa piuttosto frequente e non è in sé espressione di una psicopatologia. Spesso gli adolescenti, dopo aver avvicinato qualcosa di trasgressivo, se ne allontanano. Dal punto di vista sociale abbiamo una serie di trasgressioni socialmente giustificate, pur se eticamente non condivisibili. Il problema oggi è che non c’è un filtro rispetto a cosa i ragazzi possono sperimentare. Un bambino fino ai 12 anni che si trova nella condizione di partecipare a una social challenge probabilmente rimarrà traumatizzato, perché vive ancora secondo le ‘regole’ dell’infanzia, e andrà preso in cura. Dai 13 anni in poi è necessario capire il contesto, se si tratta del manifestarsi di un disturbo o se invece è determinato dall’avere a un accesso al web prima di aver compiuto 16 anni, che è proibito”.

Perché il periodo dell’adolescenza è l’età delle sfide e del voler oltrepassare i limiti?

“Le sfide codificate in modo sano sono un elemento indispensabile per la crescita e la maturazione perché sono modo di un superare sé stessi migliorandosi, un collegare l’impegno al raggiungimento degli obiettivi. Da sempre poi ne esistono di altro tipo, che scimmiottano i comportamenti degli adulti ma al tempo stesso chiedendo a questi ultimi di posizionare l’asticella. Ci sono sempre state sfide ‘analogiche’ pericolose che circolavano con il passaparola: in quei casi, la maggior parte erano spettatori mentre gli altri si sfidavano. A tutt’oggi, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, gli incidenti stradali erano la principale causa di morte tra gli adolescenti”.

Cosa cambia tra le sfide “analogiche” e le challenge sui social?

“Le challenge sono una forma di cyberbullismo, non si sa chi è a iniziarle e questi soggetti restano totalmente nascosti dietro l’anomimato. I ragazzi che si sottraggono alla challenge vengono offesi, mentre i partecipanti che restano e spesso lo fanno per non sentirsi inferiori agli altri, vengono esaltati. Oggi queste sfide hanno fatto un pericoloso salto di livello: sono uscite dal web e dal ‘segreto’ delle stanze dei ragazzi, ora si fanno per strada. Un passaggio sociale e psicologico in cui non solo si mette in pericolo la propria vita, ma anche quella degli altri. La spinta che sostiene e rende popolari queste challenge è la promessa di un modello di arricchimento senza nessuno sforzo, evidentemente falso ma pericoloso perché, col venire meno del valore dell’impegno, della positività dello spirito di sacrificio, della necessità di avere proprie motivazioni e idee, senza essere ‘gregari’, si indebolisce fiducia in sé stessi e nelle proprie forze. Oltre all’intento economico nascosto, c’è un aspetto psicopatologico in chi lancia queste sfide nell’anonimato, e a questo si aggiunge l’effetto moltiplicatore delle piattaforme social. Il fatto che anche il pubblico sia anonimo genera nei partecipanti uno scollegamento dalla realtà e insieme determina una sorta di ‘maniacalizzazione’, che si placa per un po’ per poi riaccendersi, nella ricerca di rispecchiamento in altre persone che non si conoscono”.

C’è un pubblico particolarmente attratto dalle sfide estreme?

“Una parte di pubblico, un gruppo abbastanza folto, probabilmente soffre di disturbi ansioso-depressivi. Un’altra si identifica nel proprio ‘eroe’ e vive l’adrenalina della challenge, ma non si sognerebbe mai di fare la stessa cosa. C’è chi le guarda con un certo senso di superiorità, ma non con spirito critico, perché semplicemente li trova stupidi. Infine, per una parte del pubblico è soltanto un altro argomento di conversazione quando ci si ritrova tra amici.”

Quali sono i soggetti più a rischio?

“Di base i partecipanti alle challenge sono ragazzi normali, ma sui social non ci sono personale reali, in carne ed ossa, con cui potersi confrontare, bensì molte persone anonime e dematerializzate che incitano e stimolano ad andare avanti. Bisognare osservare con attenzione quel 25%-30% dei giovanissimi con un disturbo o che potrebbe svilupparlo a causa di queste sfide. Il monitoraggio deve partire dai genitori e dalla scuola, già chiedere cosa si sta guardando sul cellulare è un modo di fare prevenzione. Il primo campanello di allarme in assoluto deve risuonare quando non si riesce a staccarli dai social, quando reagiscono male se gli viene tolto lo smartphone, quando sviluppano una sorta di dipendenza dai contenuti. Altri segnali sono i cambiamenti di carattere, la mancanza di socializzazione, il fare delle piccole cose pericolose, il non dormire, il calo del rendimento scolastico, l’alterazione dell’alimentazione per effetto magari di un disturbo, una desincronizzazione, del ritmo sonno-veglia. Occorre inoltre anche motivare i giovani, e anche i loro genitori, a dare fiducia a quello che sentono dentro di sé e a parlarne. In caso di piccoli sintomi o di sintomi conclamati serve l’intervento professionale, individuale e familiare. Ma ci sono i anche grandi gruppi terapeutici: lo psicologo o lo psicoanalista scolastico con una formazione specifica, un’ora a settimana, può tenere un gruppo con alunni per un momento di discussione e riflessione insieme, su un argomento emergente, solitamente indicato dal terapeuta stesso che conduce il gruppo”.