Ecco perché la liberazione di Silvia Romano suscita reazioni contrastanti

È bastata una foto sulla scaletta dell’aereo che la riportava a casa, dopo diciotto mesi di sequestro ad opera di terroristi sudanesi, per cambiare la scena di accoglienza: è apparsa in vesti musulmane, sorridente, con al polso un orologio che qualcuno è riuscito ad identificare come di lusso, dichiarando di non avere subito violenze e di essere in gravidanza, convertita alla fede islamica.

Ad accoglierla rappresentanti del governo e giornalisti che osannano una vittima scampata, grazie all’intervento della diplomazia che è riuscita ad ottenere la restituzione dell’ostaggio, si dice dopo il pagamento di un riscatto di quattro milioni.

Come in ogni derby la tifoseria si è scatenata: insulti ed improperi alla giovane rea di una serena vacanza in Africa a spese degli italiani, dubbi sulla opportunità di pagare un riscatto a chi era lì volontariamente, rabbia contro la veste indossata, simbolo del terrorismo, suffragata dalla conversione religiosa, ironia e sarcasmo per l’ostentazione del benessere durante la prigionia, confronto con il rientro delle bare dei militari impegnati nella lotta contro il terrorismo, avvolte nel tricolore, indignazione per il pagamento di danaro pubblico nelle mani di terroristi e, ironia della sorte, il giorno dopo la celebrazione dell’anniversario del sacrificio di Aldo Moro alla intransigenza dello Stato.

Dall’altra parte, gioia per la difesa di una italiana non abbandonata al destino, soddisfazione per il risultato di una delicata azione di governo, vanto degli uomini impegnati nella liberazione, dimostrazione mediatica delle capacità diplomatiche dell’attuale governo, piena conferma del sentimento italiano sulla necessità di salvare una vita a qualunque costo, lascito morale del tragico epilogo del sequestro Moro.

Da piccoli ci insegnavano che la verità sta nel mezzo, spiegando una di quelle frasi educative che alla scuola media impegnavano l’ora di latino.

Vorrei dire che a me sembra che in questo caso non sia neanche così: effettivamente desta rabbia e perplessità la scena del rientro e sarebbe stato un saggio consiglio non divulgarla così spudoratamente. Una giovane donna non rientra al termine dei suoi impegni in Africa, viene identificata un’azione criminosa di sequestro, le autorità italiane si impegnano per la liberazione, il risultato auspicato viene raggiunto. Questa la telegrafica ricostruzione di un fatto che ora deve essere vagliato, doverosamente, dalle autorità e dalla critica, come in qualunque paese democratico ma è apparso imprudente mostrare la scena del rientro, per le inevitabili reazioni indignate che avrebbe potuto scatenare, lasciando dubbi sulla impreparazione degli addetti piuttosto che sulle finalità mediatiche del lancio.

Avrei desiderato maggiore rispetto per questa ragazza in questo momento, accantonando giudizi sommari in attesa dei necessari approfondimenti, considerando la probabile subornazione di una persona al centro di una vicenda tanto eclatante: solo il tempo potrà svelare l’autenticità della sua conversione religiosa, certamente libera ed insindacabile almeno dalla fine dell’Inquisizione, la sincerità della sua dichiarazione di non aver subito violenze, la insussistenza di coercizione volitiva, l’effettiva condizione di libero discernimento nelle scelte ostensive. Sarà necessario che la donna, dopo questi mesi di isolamento insieme a criminali internazionali che le avrebbero potuto causare l’innamoramento dei suoi carnefici, ben nota come sindrome di Stoccolma, abbia la possibilità innanzitutto di recuperare la propria condizione fisica e psichica, nella serena accoglienza da parte del suo popolo, di riassestare lucidamente i propri ricordi, di rivalutare liberamente le proprie scelte e le proprie determinazioni, di riconsiderare, tra i suoi affetti, le proprie volontà, e quindi esprimersi autonomamente, confermando o smentendo, approvando o denunciando. Ma intanto, durante il tempo occorrente per sedimentare, approfondire ed indagare, non può essere oggetto di pubblico ludibrio.

Ma viene da pensare che l’errore è di chi l’ha provocata questa reazione: perché esporla alle telecamere appena rientrata, perché ostentare quella veste, quell’orologio, non sappiamo fornite da chi, raccogliere a caldo quelle sue dichiarazioni come un delinquente colto sulla scena del misfatto piuttosto che come un veicolo pubblicitario da ostentare.

Ieri, Andrea Vianello intervistato da Paolo Notari con piacere, ha stigmatizzato la differenza tra il giornalismo di inchiesta e quello di assalto, tra l’informazione critica e la rappresentazione scenica ma nonostante queste esplicite condanne, lo spettacolo del Colosseo continua non solo per esigenze di botteghino ma per imporre l’apparenza sulla verità.

Questi mesi di isolamento forzato ci hanno riabituato alla pazienza, unica vera virtù dei saggi e dei forti, indispensabile per riflettere prima di esprimere le proprie convinzioni.