Ricci (IDOS): “Migranti particolarmente vulnerabili allo sfruttamento sul lavoro”

"Normative obsolete mettono a rischio i diritti dei lavoratori immigrati". L'intervista di Interris.it al dott. Antonio Ricci, vicepresidente Centro Studi e Ricerche Idos, sui dati presentati nell'anticipazione del Dossier Statistico Immigrazione 2023

Il dott. Antonio Ricci, vicepresidente IDOS. Foto: IDOS

L’Italia affronta problemi legati all’invecchiamento della popolazione, con la previsione di un deficit di 7,8 milioni di lavoratori entro il 2050, amplificato dalle politiche restrittive sull’immigrazione degli ultimi 12 anni, che hanno causato carenze di manodopera in settori cruciali. Il governo ha approvato un piano triennale per l’ingresso di 452.000 lavoratori stranieri, ma questo rimane insufficiente. Normative obsolete mettono a rischio i diritti dei lavoratori immigrati, richiedendo urgentemente una nuova visione delle migrazioni per lavoro. Lo evidenziano i dati, anticipati oggi, del Dossier Statistico Immigrazione 2023 (a cura di IDOS in collaborazione con Centro Studi Confronti e Istituto di Studi Politici S. Pio V) che verrà presentato il prossimo 26 ottobre.

I dati IDOS anticipati dal Dossier Immigrazione 2023

In un contesto di cronico invecchiamento dell’Italia, per compensare la diminuzione della popolazione in età lavorativa (-7,8 milioni entro il 2050) sarebbero necessari ogni anno almeno 280mila nuovi ingressi dall’estero fino al 2050.  Eppure, le politiche di chiusura verso i migranti ne hanno di fatto bloccato i canali di ingresso per lavoro da 12 anni, alimentando la crisi di manodopera in comparti vitali dell’economia nazionale e svilendone il contributo alla tenuta demografica del Paese.

Il 27 settembre 2023 il governo ha approvato la “Programmazione dei flussi d’ingresso legale in Italia dei lavoratori stranieri per il triennio 2023-2025”, dopo 18 anni dall’ultima pianificazione triennale. Saranno ammessi in Italia complessivamente 452mila lavoratori stranieri. Il provvedimento, varato su forte pressione dei datori di lavoro (in grave carenza di manodopera sin dalla crisi pandemica), segna una discontinuità rispetto a 12 anni di paralisi, tuttavia è ancora molto lontano dal coprire l’effettivo fabbisogno (stimato dal governo in 833.000 lavoratori nello stesso triennio e – in mancanza di una riforma del meccanismo a cui soggiacciono, da oltre 20 anni, gli ingressi e le permanenze per lavoro dall’estero – è soggetto alle stesse gravi distorsioni osservate lungo questo intero periodo.

Il cosiddetto “Decreto Cutro” di inizio 2023, infatti, pur avendo previsto alcune aperture e migliorie procedurali (semplificazioni per il rilascio del nulla osta al lavoro, asseverazioni non necessarie se la domanda è presentata tramite organizzazioni datoriali, possibili quote riservate a singole categorie di lavoratori, marginali ingressi “fuori quota” di cittadini di Paesi con cui l’Italia abbia sottoscritto accordi di rimpatrio o di stranieri che completino riconosciute attività di formazione all’estero, ingressi riservati al settore domestico e dell’assistenza ecc.), non ha toccato l’impianto che da ormai 25 anni (ovvero dal Testo Unico sull’Immigrazione del 1998, passando attraverso i rigidi inasprimenti della legge Bossi-Fini del 2002) regola, in maniera del tutto irrealistica, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro per i migranti.

Non solo, infatti, l’ingresso di un lavoratore straniero dall’estero è soggetto a previa chiamata nominativa “al buio” da parte del datore di lavoro che sta in Italia (il quale deve formalizzare un’opzione individuale senza mai aver conosciuto di persona il suo futuro dipendente), il che è tanto più assurdo se si pensa che 3 lavoratori stranieri ogni 4 in Italia sono impiegati in aziende medio-piccole, per lo più a conduzione familiare, o presso le famiglie, come collaboratori domestici e badanti (ovvero in contesti in cui è importante un rapporto di fiducia instaurato previamente); ma il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno sono rigidamente vincolati, rispettivamente, alla sottoscrizione e alla vigenza di un contratto di lavoro: una saldatura quanto più anacronistica, tanto più che il mercato del lavoro è divenuto, in questo quarto di secolo, più flessibile e precario per tutti.

Se a ciò si aggiunge che la stessa legge del 2002 ha abolito il permesso di ingresso per ricerca lavoro, grazie al quale un immigrato poteva soggiornare in Italia per un anno, a spese di una struttura “sponsor”, per cercare direttamente un’occupazione nel Paese, non stupisce che l’impraticabilità di un simile meccanismo abbia alimentato un utilizzo improprio delle quote d’ingresso stabilite dai Decreti flussi: fingendo la chiamata dall’estero del lavoratore già alle proprie dipendenze, sono state sistematicamente usate come una “regolarizzazione mascherata”, paradossalmente più rapida e semplice della stessa procedura di regolarizzazione del 2020. Quest’ultima, oltremodo lenta e macchinosa negli esiti, se si considera che, a ben 3 anni dalla presentazione delle domande, ne ha portate ad esito definitivo meno della metà: il 31% (circa 65.200 su un totale di 207.500) con il rilascio di un permesso per lavoro e il 15% con un rigetto. Si tratta, evidentemente, di meccanismi e procedure funzionali alla creazione e al mantenimento di un sistema che rende strutturalmente fragile e ricattabile la posizione dei lavoratori immigrati, esponendoli al rischio di sfruttamento.

Anche quando è regolarmente impiegata, la manodopera straniera in Italia è spesso relegata a lavori precari, faticosi, sottopagati e rischiosi per la salute. Quasi due occupati stranieri su tre svolgono mansioni operaie o di bassa qualifica, una quota doppia rispetto agli italiani. Il prevalente impiego in attività di questo tipo si riflette in retribuzioni inferiori di ben un quarto rispetto alla media. Questa compressione salariale ha peraltro ridotto la capacità di risparmio, scesa dal 38% del reddito nel 2017 al 27% nel 2022, tanto più che circa un lavoratore straniero su cinque è impiegato in part-time involontario, contro solo uno su dieci tra gli italiani (condizione che spesso nasconde ore complementari lavorate in nero).

Interris.it ha intervistato il dott. Antonio Ricci, vicepresidente Centro Studi e Ricerche Idos, per approfondire alcuni aspetti sociali emersi dall’anticipazione del Dossier Statistico Immigrazione 2023, che sarà presentato nella sua interezza a Roma e – in contemporanea – in tutte le Regioni il prossimo 26 ottobre.

Il dott. Antonio Ricci, vicepresidente Centro Studi e Ricerche IDOS. Foto: IDOS

L’intervista ad Antonio Ricci, vicepresidente Centro Studi e Ricerche Idos

Nell’anticipazione del Dossier Immigrazione 2023 si parla di ‘crisi di manodopera in comparti vitali dell’economia nazionale’: quali sono i comparti che soffrono maggiormente?

“In Italia, diversi comparti dell’economia nazionale si trovano attualmente ad affrontare una crisi di manodopera, come per esempio l’agricoltura, l’edilizia, il turismo e la ristorazione, i trasporti e l’assistenza alla persona. Si osserva ormai una carenza di risorse umane anche per quei rami che richiedono alte qualifiche: un esempio è proprio il settore sanitario, dove la mancanza di personale (compresi medici, infermieri e operatori sanitari) è diventata particolarmente evidente durante l’epidemia di Covid-19. Va sottolineato che, in tutti i comparti menzionati, la carenza riguarda lavoratori chiave che forniscono servizi essenziali per l’economia nazionale”.

In che modo i migranti – come si legge nel Dossier – “sono potenzialmente ricattabili e a rischio di sfruttamento”?

“A causa delle rigide barriere all’immigrazione legale, i lavoratori stranieri possono essere costretti a lavorare nell’economia informale, dove spesso le condizioni di lavoro sono peggiori e i diritti dei lavoratori ignorati. Ma anche quando la manodopera straniera in Italia è in possesso di un impiego regolare, è frequente che sia relegata in condizioni di lavoro pesanti, pericolose, precarie, poco pagate, penalizzanti socialmente (le ‘cinque P’ che i sociologi utilizzano per descrivere le occupazioni che toccano agli immigrati). Neanche il prolungarsi degli anni di permanenza in Italia migliora la situazione, con gli immigrati che restano inseriti in un mercato del lavoro prevalentemente secondario, ossia in lavori manuali e a bassa qualifica e in un caso su tre al di sotto del proprio titolo di studio. Un sistema così rigido condanna gli immigrati a condizioni di lavoro sostanzialmente subalterne che non solo rendono i lavoratori immigrati particolarmente vulnerabili allo sfruttamento e alle discriminazioni sul luogo di lavoro, ma pregiudicano anche i percorsi di integrazione e il perseguimento di quel livello di benessere economico essenziali per se stessi e per le loro famiglie”.