Lo sbadiglio di una democrazia pigra e stanca

Prevedere che i referendum di domenica andranno deserti è cosa talmente diffusa e scontata che non vale nemmeno la pena di ripeterla. Occasione persa per stimolare una riforma della giustizia, oppure semplice manifestazione di stanchezza democratica, poco importa: l’uno e l’altro caso pongono una serie di interrogativi poco piacevoli.

Il primo: se il referendum (che è per costituzione è abrogativo, quindi intervento ex post sulla legislazione vigente) deve essere di stimolo al Parlamento, allora qualcosa non va. Come non va quando la funzione di stimolo è affidata alle sentenze della Corte Costituzionale; quando un potere dello Stato interviene per sollecitare un altro potere affetto da accidia, allora c’è una patologia. Se poi dietro il fallimento prossimo venturo dell’ennesimo tentativo referendario c’è la stanchezza della democrazia, allora il guaio è serio.

Purtroppo la guerra in Ucraina e l’esplosione dello scontro tra democrazie e autocrazie (perché anche di questo si tratta) non hanno ancora risvegliato molte coscienze che dormivano convinte che un punto di Pil valga bene la libertà. Ancora dormono cullate dall’illusione: prima o poi il risveglio sarà duro. L’Italia che non si pone il problema di recarsi alle urne è anche quella che è pronta a lasciare gli ucraini al loro destino, pur di non fare a meno del condizionatore. Si vada a votare, secondo coscienza: è la cosa migliore che possiamo fare.

Detto questo, la questione ha anche un altro risvolto, che non riguarda la neghittosità del corpo elettorale quanto semmai l’iperattivismo populista di una certa parte del corpo politico. Guardiamo bene ai fatti: i referendum di domenica sono stati presentati da una strana coalizione di leghisti e radicali mossi da intenti diversi ma per nulla divergenti. I primi intendevano rilanciarsi con una “provocatio ad populum” su temi, come quelli della giustizia, di facile consenso generale. Invece di agire in Parlamento, dove hanno a disposizione una consistente presenza, hanno scelto la via facile e teoricamente in discesa della consultazione popolare. I secondi hanno fatto lo stesso nel tentativo, altre volte riuscito, di imporre per via referendaria un tema di natura etica rendendo ineluttabile, grazie alla sua distorta interpretazione, un futuro intervento legislativo. Pericolo sventato dal richiamo del presidente della Consulta, Giuliano Amato, a imparare a scrivere in italiano. Risultato: è mancato il traino dell’argomento dirimente e di interpretazione apparentemente facile (eutanasia sì o no) ed ora tutta la baracca rischia di cadere, abbattuta dallo sbadiglio del corpo elettorale più pigro d’Europa.

Già immaginiamo le polemiche del lunedì, degne del Processo di Biscardi: abolire il quorum, condannare i promotori al pagamento delle spese della fallita consultazione, eccetera. Temiamo che non basterebbe nemmeno raddoppiare il numero delle firme necessarie alla presentazione del quesito. Qui non si tratta di escogitare un artificio tecnico, si tratta di ridare equilibrio ai poteri dello Stato immettendo nuova linfa in quegli strumenti della democrazia capaci di interpretare, se ben strutturati, lo spirito autentico delle istituzioni. Al referendum si va, sempre di più, se il Parlamento non è in grado di legiferare, ed il Parlamento non è in grado di legiferare se i partiti che vi siedono non sono culturalmente attrezzati a farlo. Non è un caso che anche i quesiti di domenica siano stati promossi da un partito populista e sovranista come la Lega e da una componente fortemente minoritaria come i radicali. L’una e gli altri meritano rispetto, ma né l’una né gli altri sono in grado di progettare una via d’uscita all’attuale crisi democratica.

Insomma, si approfitti dell’ultimo scorcio di legislatura per dare una spinta alla riforma del sistema politico, portando i partiti ad una necessaria rifondazione. Il dibattito è già iniziato e verte sulla revisione della legge elettorale. Si dice che non sia argomento da toccare, in tempi di Covid e di guerra: c’è altro a cui pensare. Ma è vero il contrario: è proprio perché sono in corso emergenze di questa portata che bisogna attrezzarsi al nuovo. Perché da una nuova legge elettorale, in chiave proporzionale, scaturirebbero nuove energie pronte a immettersi nel sistema politico: nuove idee, nuovi nomi, nuovi tempi. Non sarebbe per nulla un disastro. L’alternativa è aspettare, sbadigliando, i prossimi inutili referendum promossi da chi è sempre più a corto di idee.