De Robert: “Madri con i figli in carcere: le soluzioni a tutela dei bimbi”

L'intervista di Interris.it alla dottoressa Daniela de Robert, del Collegio dell’Autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, sulla spinosa questione dei bambini reclusi nelle carceri con le proprie madri

Foto di Ehteshamul Haque Adit su Unsplash

Alcuni bambini sono costretti a vivere in carcere a causa della detenzione delle madre. Nelle carceri esistono le sezioni nido per accudire i piccoli, che comunque vivono – a volte per un breve periodo, altre volte per mesi – la realtà carceraria senza nessuna colpa.

Eppure, il carcere non è l’unica opzione per questi bambini, una ventina attualmente in Italia. Le soluzioni alternative ci sarebbero. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Daniela de Robert, componente del Collegio dell’Autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale che è anche il Meccanismo di prevenzione della tortura in ambito Onu. Il Garante nazionale ha il compito di risolvere quelle situazioni che generano occasioni di ostilità o che originano reclami proposti dalle persone ristrette, riservando all’autorità giudiziaria i reclami giurisdizionali che richiedono l’intervento del magistrato di sorveglianza.

L’intervista a Daniela de Robert

In quali casi i bambini restano in carcere con la madre?

“La possibilità di poter tenere con sé i propri figli in carcere è una previsione di legge che va nella direzione di tutelare la genitorialità al fine di consentire alle madri che devono scontare una pena di non interrompere il rapporto con il figlio in un momento così delicato come nei suoi primi anni di vita. Il diritto alla genitorialità non può essere trascurato. Ciò nonostante, vige anche il diritto del minore di vivere in un ambiente costruttivo e adatto a lui. E’ chiaro che il carcere non sia il luogo ideale. E’ però sbagliato mettere in contrapposizione due diritti, quello del bambino a una vita serena e a un ambiente adatto alla sua crescita e quello alla genitorialità. I diritti non possono mai essere contrapposti; bisogna invece trovare una soluzione alternativa. Per tale motivo, il tenere il figlio in carcere deve essere una misura estrema che va ridotta al minimo, possibilmente a zero. Laddove la custodia cautelare non è necessaria, va dunque sempre evitata. Infatti, la legge prevede che, per le donne con un figlio nei primi anni di vita, la prima scelta da attuare è quella delle case famiglia protette”.

Cosa sono e come funzionano?

“Le case famiglia protette sono delle strutture la cui costruzione era stata affidata ai comuni. Purtroppo, ne è stata realizzata una sola nel comune di Roma. Esite poi una seconda casa famiglia protetta a Milano ma che non è del comune, ma di un associato privato sociale con cui è stata fatta una convenzione. Purtroppo, non ne sono state fatte altre. Perciò, i posti disponibili per queste donne con bimbi piccoli sono estremamente esigui e insufficienti”.

Quali altri opzioni esistono oltre alle case famiglia protette?

“La seconda opzione è quella degli Icam, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri. Luoghi pensati con una maggiore attenzione rivolta al minore. Per esempio: niente divise, niente porte blindate ‘evidenti’, niente sbarre e sono posizionate fuori dal carcere. Ma purtroppo non sempre così. E le regole che vigono all’interno degli Icam sono pur sempre quelle di un istituto penitenziario. Quindi i bambini possono uscire per andare alla scuola materno o all’asilo nido, ma – ad esempio –  se in una casa famiglia protetta il bambino ristretto con la mamma volesse festeggiare il compleanno con i suoi fratelli più grandi o con la sua classe, potrebbe farlo.Mentre in un Icam no. Quindi, ha delle ristrettezze importanti, ma mai come in carcere, ovviamente”.

Quanti sono gli Icam attualmente e quanti posti hanno?

“Gli Icam in Italia sono quattro e sono distribuiti in maniera non omogenea: tre sono al nord, Milano, Torino e Venezia per un totale di 32 posti e uno è in Campania, a Lauro (Avellino), per 50 posti. Manca completamente nel Lazio e specificatamente a Roma, che è la città che ha l’istituto di pena femminile più grande d’Europa, con 400 donne recluse. Non avere neppure un Icam in un territorio come il Lazio è, secondo me, una grave mancanza”.

Quali altre opzioni per le madri detenute?

“La terza opzione è quella delle cosiddette ‘sezioni nido’, che sono le sezioni detentive attrezzate per i bambini all’interno delle carceri. Noi come Autorità Garante le abbiamo visitate: sono a misura di bimbo, con le pareti colorate e le immagini di animali come in un vero asilo nido, ma sono pur sempre inserite in una sezione detentiva. In alcuni casi, addirittura, la sezione nido era una cella all’interno della sezione detentiva normale in cui era stato messo un lettino per bambini. E’ ovvio che questa sia la soluzione peggiore in assoluto per i bimbi. E rende chiaro il perché sia vitale che al bambino venga evitato il carcere se non è assolutamente necessario che la madre sia tenuta lì. In caso contrario, devono essere privilegiate le altre opzioni, a partire dalla casa famiglia protetta. Questo dice la legge, ma non sempre è stato effettuato. Ciò nonostante, il traguardo ‘zero bambini in carcere’ è possibile. Ed è già avvenuto”.

Quando?

“Durante il Covid. In quel periodo, si è riusciti ad arrivare a zero presenze di bambini in carcere. Questo ci suggerisce che lo slogan ‘mai più bimbi in carcere’ è difficile ma non impossibile da realizzare. È chiaro che non è automatico: a volte può rendersi necessario che la donna sia ristretta in un istituto penitenziario e che comunque le sia garantita la possibilità di tenere suo figlio con sé per preservare il rapporto genitoriale. Ma deve diventare l’eccezione; la regola deve essere il trovare soluzioni più a misura di bambino possibile, affinché vengano tutelati i diritti di entrambi”.