Aggressione a sede Pro Vita & Famiglia: le riflessioni da fare

Foto dal sito di © Pro Vita & Famiglia

L’aggressione incivile e violenta alla sede di Roma dell’Associazione Pro Vita & Famiglia – oltre a suscitare una legittima e doverosa indignazione da parte di chiunque crede davvero, e non solo a parole, nei principi democratici – impone anche qualche considerazione. Per la gravità del fatto in sé, ma ancora più per la cultura violenta e antidemocratica che l’ha alimentata. Facciamo subito una premessa: quella povere ragazzine manifestanti sono solo superficialmente responsabili del fatto. Per dirla con il Giusti, nella poesia Sant’Ambrogio, esse sono principalmente “strumenti ciechi di occhiuta rapina”, esse stesse povere vittime di agenzie culturali e politiche che per loschi interessi economici promuovono e alimentano la “cultura della morte”, tante volte condannata dagli ultimi Papi. Un antico adagio dice che “quando i ricchi dichiarano guerra, sono i poveri a morire”: questo vale sempre, dalle guerre fra gli stati alle guerre sociali e perfino personali. Guardiamo con occhio sincero e mente pulita, se non è così: chi paga con la morte i conflitti fra gli eserciti? I poveri, gli inermi, gli innocenti. Chi paga nei conflitti interpersonali e familiari? I bambini, innocente merce di scambio fra interessi opposti.

Foto di © Pro Vita & Famiglia

Ieri sera, in Viale Manzoni, veniva scandito lo slogan “Lo stupratore non è malato, ma il figlio sano del patriarcato”. Ripetendo un mantra tanto di moda, quanto oggettivamente, culturalmente, storicamente senza fondamento alcuno, oggi nel nostro tempo, risulta evidente che per chi urlava – soprattutto giovanissime, che possono essere nostre figlie o nipoti – ragione in più per guardare loro con grande compassione, nel senso latino del temine “patire, soffrire insieme” – era lo strumento per sfogare un dolore profondo, sentendosi vittime di atti violenti. Ma chi sta strumentalizzando quel legittimo dolore, chi sta confondendo le menti e i cuori, scaricando ogni colpa su un “patriarcato” cancellato da oltre due secoli – nei fatti e nella cultura – del nostro popolo, rivela la volontà di voler attaccare il cuore stesso della vita comune, portando un clima di conflitto dentro la famiglia, fra madre, padre, genitori, figli. Non più fra loro alleati nella ricerca, certamente non facile, spesso faticosa, della felicità, ma nemici l’un contro l’altro armato. E come già dicevamo chi ne fa le spese sono le giovani generazioni, confuse, spaesate, prive di riferimenti che non siano quelli che i “signori” di Internet propongono.

Solo l’accecamento ideologico impedisce di vedere come la vera cultura maschilista non nasce nel patriarcato, ma nella cultura della banalizzazione, manipolazione e “cosificazione” della donna e del corpo femminile. I media – la nuova drammatica bibbia (con la minuscola, sia ben chiaro!) – propongono uno sfruttamento vergognoso della donna: dalla prostituzione alla pornografia, con una sessualità spesso sadica, violenta, questa sì davvero “machista” … o forse, sarebbe meglio dire “animalesca”, detto con rispetto degli animali, che così non sono!

Nel 1969, avevo 18 anni, ebbe grande successo un film intitolato “Queimada”, di Gillo Pontecorvo, che racconta la storia della lotta per il potere fra Portogallo ed Inghilterra, fatta di menzogne, inganni ed imbrogli da entrambe le parti. Al termine della storia, il valoroso condottiero della causa dei campesinos sfruttati, accortosi dell’inganno con cui era stato manipolato, prima di morire, grida: “Senor, quando un povero è costretto a lavorare per un ricco, chiamalo come vuoi, ma sempre schiavitù si chiama”. Piansi, insieme a mio padre (patriarcato!) alla fine di quel film. Circostanze assolutamente diverse, ma quando l’ideologia, che sostiene ed “ingrassa” il mercato, promuove il commercio della donna e del suo corpo, quando una donna si può comprare o affittare per soddisfare i propri capricci, quando il nudo femminile serve per vendere abiti, profumi, diete e ogni tipo di preferenza sessuale … chiamala come vuoi, ma sempre schiavitù si chiama! Questo è il reale terreno in cui alligna la malapianta della violenza contro le donne.

E’ certamente doveroso inasprire le pene, individuare strumenti di prevenzione precoce, ma se non si dà una radicale svolta culturale e di visone della vita, saranno misure che trattano il sintomo, lasciando intaccata la malattia. Anzi, alimentare il contrasto, la ritorsione, la campagna d’odio fra i sessi, favorire il discredito e lo sgretolamento della famiglia, letta solo in chiave di patriarcato, favorire la “lotta dei generi” fra mamma, papà e figli, alla stregua della lotta di classe di marxiana memoria, fa solo il gioco di chi alimenta la guerra e non vuole per nulla la pace. Dobbiamo auspicare un grande movimento di “unità nazionale” perché la posta in gioco è altissima.