Noi Italia 2023: il quadro del Belpaese che emerge dal rapporto Istat

Un'analisi del rapporto Noi Italia 2023 prodotto dall'Istat che analizza i punti principali che caratterizzano il nostro Paese

Foto di Angélica Echeverry su Unsplash

Qual è la vera Italia? Quella che ci raccontano nei talk show televisivi o nei comizi dei sindacalisti oppure è quella che emerge dalle statistiche ufficiali prodotte da un Ente, l’Istat, che non riceve input di regime per edulcorare la realtà? Conosciamo i limiti delle statistiche che ci portano al pollo di Trilussa. Ormai però questa scienza ha molto progredito, nel senso che è ìn grado di scendere nello specifico di molti aspetti del vivere civile, tra cui la platea di chi vive o potrebbe cadere in una condizione di povertà. Ma soprattutto attraverso i numeri del monitoraggio periodico dei processi sociali si arriva molto più vicino alla realtà rispetto al criterio della percezione o ancora peggio alla pretesa di inserire di forza una fase della storia all’interno di una ideologia prestabilita. Quale è la verità “politicamente corretta” che è divenuta un groviglio di luoghi comuni dati per scontati e che non consentono repliche?

L’Italia immaginaria

Vediamone alcuni: 1) sono aumentate le diseguaglianze: non è vero, numerosi studi dimostrano che i massicci trasferimenti di risorse pubbliche coma aiuti e ristori durante la pandemia a favore dei ceti meno abbienti hanno  ridotto le diseguaglianze; 2) i salari sono più bassi di quelli medi europei: il che è vero solo per i livelli più elevati; 3) non c’è lavoro: in realtà il mercato del lavoro è in crisi soprattutto sul versante dell’offerta, anche perché cominciano a pesare gli squilibri determinati dall’inverno demografico e i giovani che entrano nel mercato del lavoro appartengono  a coorti molto meno numerose di quelle che ne escono per andare in quiescenza; 4) il lavoro che c’è è da buttare perché non è stabile ed è mal retribuito; dopo la riforma Fornero i lavoratori sono costretti ad andare in pensioni a tarda età: non è vero perché sono tanti (la maggioranza) coloro che hanno le condizioni per il pensionamento anticipato ad un’età di poco superiore a 60 anni. Queste ed altre amenità sfidano imperterrite la verità dei fatti. E’ certamente vero che l’Italia ha tanti guai e che vive pericolosamente, esposta da tanto tempo a tante minacce improvvise e inattese in un mondo sempre in bilico da una crisi ad un’altra. Tuttavia negli ultimi anni – per tanti motivi – molti processi hanno cambiato indirizzo (per esempio aumentano le assunzioni a tempo indeterminato, mentre diminuiscono quelle a termine, a livello degli stock, ma la rappresentazione dell’Istat (NOI ITALIA 2023) fornisce un quadro di analisi, carico di problemi, ma solido, tanto nei suoi guai, quanto negli elementi di resilienza.

L’emergenza demografica

Ci siamo finalmente accorti che l’emergenza più seria è quella demografica. Non si ferma la crescita degli indici di vecchiaia e di dipendenza che, al 1° gennaio 2022, raggiungono, rispettivamente, quota 187,9 (anziani ogni cento giovani) e 57,5 (persone in età non lavorativa, ogni cento in età lavorativa). Tra le Regioni, è sempre la Liguria a detenere il valore più elevato dell’indice di vecchiaia (267,2), mentre la Campania (143,6) presenta il valore più basso. In ambito Ue, l’Italia è il Paese con il più alto indice di vecchiaia e fa parte del gruppo dei Paesi con indice di dipendenza più elevato della media europea (56,0). Nel 2022, la speranza di vita alla nascita della popolazione residente italiana è di 80,5 anni per i maschi e di 84,8 per le femmine. Si vive mediamente più a lungo al Centro-Nord, soprattutto nella Provincia Autonoma di Trento, dove la speranza di vita è di 81,9 anni, per i maschi e 86,3, per le femmine. Il valore minimo della speranza di vita si ha in Campania, sia per i maschi (78,8 anni), sia per le femmine (83,1 anni). L’Italia è tra i Paesi europei con la speranza di vita alla nascita più elevata.

L’immigrazione

Lo squilibrio demografico ha cambiato il tradizionale flusso dei movimenti delle persone; l’Italia che in un secolo ha mandato su tutte le latitudini 24 milioni di cittadini, da decenni “importa” lavoratori stranieri con le loro famiglie. All’inizio del 2022, in Italia, risiedevano circa 5 milioni di cittadini stranieri (141 mila in meno rispetto all’anno precedente), comunitari e non comunitari, che rappresentano l’8,5% del totale dei residenti. L’83,8% dei cittadini stranieri residenti in Italia si concentra nel Centro-Nord. Alla stessa data, sono regolarmente presenti poco meno di 3,6 milioni di cittadini non comunitari, il 65,8% dei quali ha un permesso di soggiorno di lungo periodo. Nel corso del 2021, i nuovi permessi di soggiorno rilasciati a cittadini non comunitari sono stati quasi 242 mila, con un aumento del 127% rispetto al 2020, quando, a causa del COVID-19, si era registrato il minimo storico dei nuovi ingressi nel nostro Paese. L’83,8% degli stranieri residenti in Italia risiede nelle ripartizioni del Centro-Nord. La maggiore attrattività delle Regioni del Centro-Nord è confermata anche dai permessi di soggiorno dei cittadini non comunitari: circa l’85% è stato rilasciato o rinnovato nel Centro-Nord, soprattutto in Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio e Veneto. L’incremento dei nuovi flussi di ingresso ha riguardato, invece, soprattutto il Sud e le Isole. Il livello di istruzione degli stranieri, nel 2022, è ancora inferiore a quello degli italiani: circa il 52,3% degli stranieri d’età compresa tra i 15 e i 64 anni ha conseguito al più la licenza media, rispetto al 37,7% dei coetanei italiani; il 37,4% di loro ha un diploma di scuola superiore e il 10,2% una laurea, a fronte, rispettivamente, del 43,2% e del 19,0% degli italiani della stessa fascia d’età.

Le famiglie

In merito alle condizioni economiche delle famiglie, mentre nel 2020, il reddito familiare netto medio annuo è di 32.812 euro, ma la metà delle famiglie non supera i 26.597 euro. La distribuzione del reddito a livello regionale mostra forti differenze: Campania e Calabria sono le Regioni dove la diseguaglianza, misurata in termini di concentrazione del reddito, è più elevata, mentre nelle Regioni del Nord prevale una maggiore uniformità. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito in Italia è superiore alla media Ue. Nel 2021, la spesa media mensile delle famiglie residenti in Italia è pari a 2.437 euro, in marcata ripresa (+4,7%) rispetto al 2020, ma la metà delle famiglie spende meno di 2.048 euro al mese. Nelle Regioni del Nord, si spendono mediamente 689 euro in più, rispetto a quelle del Mezzogiorno. Nel 2021, la povertà assoluta permane sugli elevati valori raggiunti nel 2020, anno di inizio della pandemia da COVID-19, coinvolgendo il 7,5% delle famiglie (1,9 milioni) e il 9,4% degli individui (circa 5,6 milioni) residenti. I minori colpiti dalla povertà assoluta sono 1 milione 382 mila, appartenenti a 762 mila famiglie. La situazione è particolarmente critica per chi vive in affitto: oltre 889 mila famiglie in povertà assoluta sono in affitto e rappresentano il 45,3% di tutte le famiglie povere. La povertà relativa sale all’11,1%, coinvolgendo circa 2,9 milioni di famiglie (circa 8,8 milioni di individui) concentrate soprattutto nel Mezzogiorno (20,8%), con valori dell’incidenza che raggiungono il 27,5% in Puglia, il 22,8% in Campania e il 20,3% in Calabria. Nel 2021, nel Mezzogiorno, il 10,0% della popolazione residente (più di 2 milioni di persone) vive in condizione di grave deprivazione materiale e sociale; nel Nord-Est, la quota è 1,9%. Nel 2022, rispetto all’anno precedente, diminuisce la percentuale delle persone molto o abbastanza soddisfatte per la propria situazione economica (57,0%). Il Nord-Est resta l’area geografica in cui questa percentuale, seppur in diminuzione, è più elevata (61,8%). Nel 2021, in Italia, la spesa pubblica in istruzione incide sul Pil per il 4,1%, valore più basso di quello medio europeo (4,9%). Nel 2022, prosegue il miglioramento del livello di istruzione degli adulti (25-64enni), per effetto dell’ingresso di generazioni di giovani, mediamente più istruiti, e l’uscita di generazioni di anziani, in genere meno istruiti. La quota di coloro che hanno conseguito al più la licenza media è scesa al 37,4% ma, nel Mezzogiorno, raggiunge il 45,6%.

Mercato del lavoro

Nel 2022, il tasso di occupazione dei 20-64enni sale al 64,8% (+2,1 punti percentuali, rispetto al 2021), superando il livello del 2019 (63,5%). Evidente lo squilibrio di genere a sfavore delle donne (55,0%, a fronte del 74,7% dei coetanei uomini), mentre, a livello territoriale, i divari sono marcati: nel Nord, sono occupate oltre 7 persone su 10, nel Centro quasi 7, mentre, nel Mezzogiorno, solamente 5 persone su 10; gli estremi variano tra il 46,2% della Sicilia e il 79,2% della Provincia Autonoma di Bolzano/Bozen. Nel confronto europeo, solo la Grecia ha un tasso di occupazione inferiore a quello italiano, mentre si è ampliata la distanza con la media dell’Ue, soprattutto per le donne. Nel 2022, l’incidenza del lavoro a termine sale al 16,8% (+0,4 punti percentuali, rispetto al 2021), con una quota più alta nel Mezzogiorno (di circa 8 punti percentuali), rispetto al Centro-Nord. Contemporaneamente, si registra una lieve riduzione degli occupati part-time, la cui incidenza scende complessivamente al 18,2%, con forti differenze fra maschi (8,3%) e femmine (31,8%). In calo il lavoro irregolare che, però, nel 2020, incide ancora in misura rilevante e coinvolge il 12,0% degli occupati. Il Mezzogiorno presenta l’incidenza più elevata (16,7%), con la Calabria (20,9%) che registra il valore più alto; nel Centro, è il Lazio a presentare il tasso più elevato (14,3%). Il Nord-Est mantiene in media la minor incidenza, con il valore più basso nella Provincia Autonoma di Bolzano/Bozen (8,4%). Il lavoro sommerso, oltre a essere maggiormente diffuso nelle unità produttive più piccole, è caratterizzato da forti specificità settoriali: nelle costruzioni, il tasso di irregolarità nel Mezzogiorno (21,5%) è più alto della media nazionale di 6,7 punti percentuali; il settore dei servizi presenta una variabilità territoriale più contenuta, rispetto agli altri settori. Il tasso di disoccupazione (15-74enni), nel 2022, diminuisce di 1,4 punti percentuali, rispetto al 2021, attestandosi all’8,1%, con differenze fra la componente femminile e maschile (rispettivamente, 9,4% e 7,1%). Forti le differenze territoriali, con il valore del Mezzogiorno (14,3%) che, seppure in calo, supera di oltre tre volte quello del Nord-Est e di due quello del Centro, con un picco del 17,1% in Campania. Nel 2022, Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24enni) diminuisce di 6 punti percentuali, rispetto all’anno precedente, attestandosi al 23,7%. Anche fra i giovani, l’indicatore si conferma più elevato per la componente femminile (25,8%, a fronte del 22,3% di quella maschile), con un differenziale in diminuzione, rispetto al 2020. È in lieve aumento la quota di disoccupati che cercano lavoro da almeno un anno (+0,5 punti), con un valore che sale al 57,3%, più alto per i maschi. Nel 2021, Il tasso di mancata partecipazione (15-74enni), che dà conto di quanti sono disponibili a lavorare, pur non cercando attivamente lavoro, dopo la lieve diminuzione del 2021, registra un calo significativo (-3,2 punti percentuali), attestandosi al 16,2%: comunque più alto per le femmine di 6,1 punti percentuali, rispetto ai maschi. Il valore del Mezzogiorno (29,8%) è tre volte superiore a quello del Centro-Nord. Il divario di genere, a sfavore delle donne, che si registra nel Mezzogiorno è il doppio di quello nazionale.

Sanità e salute

In Italia, nel 2020, la spesa sanitaria pubblica è di gran lunga inferiore rispetto a quella di altri Paesi europei. A parità di potere di acquisto, a fronte di 3.747,2 dollari per abitante spesi in Italia nel 2020, Olanda, Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Lussemburgo e Svezia superano i 5 mila dollari, mentre la Germania, con i suoi 6.939 dollari per abitante, si conferma al primo posto per spesa pro capite. Il confronto europeo evidenzia che, in Italia, nel 2021, la quota di spesa sanitaria privata sulla spesa sanitaria complessiva (pubblica e privata) è uguale al 24,4%, vicina alla quota osservata per l’Austria (23,6%). Il Paese in cui i contributi della spesa privata sono maggiori è il Portogallo (36,0%); tutti gli altri Paesi dell’Ue presentano quote inferiori al 30% e i contributi minori si registrano per la Germania (14,0%).

Protezione sociale

Nel 2021, in Italia, la spesa per la protezione sociale è il 32,5% del Pil. È destinata prevalentemente alla funzione vecchiaia (47,3%) e alla funzione malattia (23,0%), ma è 9 2023 rilevante anche l’incidenza delle due funzioni congiunte, disoccupazione e altra esclusione sociale non altrove classificata (11,8%). La spesa pro capite per la protezione sociale è di 9.591 euro annui, appena al di sopra della media Ue (9.538 euro). Se rapportata al Pil, la spesa dell’Italia (34,4% nel 2019) supera la media Ue (31,8%). Nel 2020, la spesa per prestazioni sociali erogate dagli enti previdenziali ha registrato un aumento, rispetto all’anno precedente, attestandosi al 22,4% del Pil, quasi 6.268 euro pro capite. Ad influenzare la crescita dell’indicatore, oltre all’aumento degli importi erogati (342,9 miliardi di euro nel 2019; 372,6 miliardi di euro nel 2020), gioca un ruolo importante la flessione del Pil, dovuta alla pandemia da COVID-19. La spesa per prestazioni sociali è solo in parte coperta dai contributi sociali: l’indice di copertura previdenziale, misurato dal rapporto tra contributi e prestazioni (nel 2020 in diminuzione di 8,7 punti percentuali, rispetto all’anno precedente), risulta, infatti, del 66,0%. Nel 2020, l’incidenza dei trattamenti pensionistici sul Pil è pari al 18,4%, superiore di 1,7 punti percentuali a quella dell’anno precedente. Anche in questo caso, ad influenzare la crescita dell’indicatore, oltre all’ incremento dei trattamenti pensionistici erogati (circa 305,7 miliardi di euro, a fronte di 299 miliardi di euro nel 2019), gioca un ruolo importante la flessione del Pil. Il tasso di pensionamento, sostanzialmente invariato rispetto al 2018, è pari al 37,6%, mentre la quota di reddito medio per abitante alimentata da trattamenti pensionistici, costantemente in aumento dal 2000, è pari al 48,9%.

Spesa per servizi sociali locali

Nel 2020, la spesa dei Comuni per i servizi sociali, al netto del contributo degli utenti e del Servizio Sanitario Nazionale, ammonta a 7,848 miliardi di euro, corrispondenti allo 0,47% del Pil. Il 36,9% delle risorse gestite dai Comuni per i servizi sociali è destinato alle famiglie con figli, il 25,0% ai disabili, il 15,9% agli anziani. A causa della pandemia, si registra un aumento degli interventi a supporto delle famiglie in difficoltà economica; di conseguenza, è aumentata la spesa per l’area di utenza “povertà, disagio adulti e senza dimora”, passata dal 7,5% della spesa, nel 2019, al 12,2%, nel 2020. La spesa rimanente è rivolta per il 4,3% agli immigrati, per lo 0,3% alle dipendenze da droghe e alcool e per il 5,4% alle spese generali, di organizzazione e per i servizi rivolti alla “multiutenza”. Nel 2020, la spesa pro capite per il welfare territoriale ammonta a 132 euro, a fronte dei 126 del 2019. Nel Mezzogiorno, con l’eccezione della Sardegna, che ha una spesa di 283 euro per abitante, i livelli pro capite sono decisamente inferiori a quelli del Centro-Nord (87,0 euro circa, a fronte di quasi 155,0), con un livello minimo in Calabria (circa 28 euro). Nell’anno educativo 2020/2021, il 59,3% dei Comuni italiani ha offerto servizi socio-educativi per la prima infanzia, ma solo il 13,7% dei bambini al di sotto dei tre anni è accolto nelle strutture pubbliche o finanziate dal settore pubblico. Nel corso degli ultimi anni, si registra un miglioramento della copertura e dell’utilizzo dei servizi nelle regioni meridionali e il conseguente attenuarsi delle divergenze: i Comuni del Mezzogiorno che offrono i servizi sono passati dal 35,4% del 2014/15 al 46% del 2020/21. Tuttavia, la percentuale di utenti sui bambini residenti di 0-2 anni mostra ancora un divario molto ampio tra il Centro-Nord (18,0%) e il Mezzogiorno (5,9%)

Strutture produttive

In Italia, nel 2020, aumenta il numero di imprese per abitante (74,2 ogni mille abitanti). Per densità di attività produttive, il nostro Paese si colloca al sesto posto in Europa. Emerge, invece, la maggior frammentazione del tessuto produttivo italiano, con una dimensione media di impresa (3,9 addetti) inferiore alla media europea (5,5 addetti). A livello territoriale, il Centro-Nord si caratterizza per un rapporto molto elevato di imprese (80,4 per mille abitanti), rispetto al Mezzogiorno (62,2 per mille abitanti) e per un numero medio di addetti per impresa (4,3) superiore alla media nazionale. Il Mezzogiorno ha invece una dimensione media aziendale più bassa (2,9). Anche per il 2020, come terzo anno consecutivo, cresce il tasso di sopravvivenza delle imprese, a cinque anni dalla nascita, arrivando a quota 45,8; ciò evidenzia una maggiore resistenza delle imprese italiane sul mercato.

Finanza pubblica

Nel 2021, in l’Italia, l’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche in percentuale del Pil si attesta al 7,2%, in riduzione rispetto al 2020 (9,5% del Pil), mentre il saldo primario è negativo (-3,7% del Pil), anche questo in miglioramento rispetto al 2020 (-6,0% del Pil). Il 2021 è segnato dalla crisi economica dovuta all’emergenza sanitaria conseguente alla pandemia da COVID-19 e, in gran parte dei Paesi dell’Ue, il rapporto tra indebitamento e Pil è superiore alla soglia del 3%. La soglia, sospesa dal marzo 2020 con l’applicazione delle clausole di salvaguardia, è rispettata solo da dodici Paesi su 27 (nel 2020 erano 3 su 27). Tra le maggiori economie europee, Italia, Spagna e Francia hanno un rapporto tra indebitamento netto e Pil superiore alla media Ue (4,6%), mentre in Germania, il deficit è uguale al 3,7%. Il saldo primario è negativo in 23 Paesi su 27 (nel 2020, 26 su 27), con le uniche eccezioni di Danimarca, Lussemburgo, Svezia e Cipro.

Energia green

Nel 2020, il contributo delle fonti rinnovabili ai consumi di energia elettrica è del 19,0%, valore in diminuzione, rispetto all’anno precedente. A livello territoriale, la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è del 100% in Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, Trentino-Alto Adige/ Südtirol e Basilicata. Queste Regioni realizzano un surplus di produzione green che viene trasferito alle altre Regioni. In Molise, Calabria e Abruzzo la quota di consumi elettrici coperta con fonti di energia rinnovabili supera il 50%; sono in fondo alla graduatoria, con valori inferiori al 25%, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio. Per quanto riguarda i consumi energetici complessivi (elettrici, termici e di trasporto), coperti da fonti rinnovabili, l’Italia è tra i pochi Paesi virtuosi che hanno da tempo superato l’obiettivo (17%) fissato dalla Direttiva 2009/28/Ce per il 2020.