Gian Marco Tognazzi: “Ecco come tenere vivo il ricordo di mio padre Ugo”

L'intervista a Gian Marco Tognazzi, figlio del celebre attore Ugo nell'anno di quello che sarebbe stato il suo centenario

Libertà di essere sé stessi e un continuo simposio per crescere imparando dai grandi del passato: è il paradigma di Gian Marco Tognazzi, attore e conduttore, che ricorda sia suo padre Ugo nell’anno di quello che sarebbe stato il suo centenario sia l’Italia sognatrice, creativa e felice della Dolce Vita.

Quest’agosto si tiene la terza edizione del Premio Ugo Tognazzi. Qual è la storia dietro al festival e perché proprio a Torvaianica?

“A Torvaianica perché c’è il Villaggio Tognazzi, il posto dove Ugo ha portato da Pavarotti ai Rolling Stones, dove organizzava il torneo di tennis al quale per trent’anni hanno partecipato per divertimento tutti i più grandi del mondo dello spettacolo, della musica, della cultura e dello sport, l’oasi in cui stava nei periodi estivi e per comodità la gente ha creato questo nome. Tutto ha preso forma dalla filosofia di Ugo fatta di quella convivialità dalla quale nascevano amicizie, collaborazioni, film e storie. Lo storico torneo di tennis organizzato da mio padre, non più possibile senza di lui, fu la prima manifestazione fissa dell’estate romana e nacque con l’idea di essere seguito da una spaghettata notturna tra amici, per questo il premio dello Scolapasta d’Oro, una presa in giro dell’Insalatiera d’Argento della Coppa Davis. Tre anni fa il comune di Pomezia ha voluto riportare Ugo al centro della comunità omaggiandolo con l’attivazione di un percorso di eventi, proiezioni e grandi ospiti.  Nel 2020, a trent’anni dalla sua scomparsa, è partito il festival con l’edizione “Ugo Pari 30”, seguito nel 2021 dalla “TrentUgo” e quest’anno ci siamo con “Ugo100%”, ci raggiungeranno anche Giovanna Ralli e Pupi Avati. Otto giorni di: mostre fotografiche (cento foto e totem trifacciali sparsi per la città con l’Ugo privato e l’Ugo pubblico e quella dedicata al tennis di Ettore Costa), proiezioni di film di Ugo e commedie della stagione in corso che verranno poi premiate insieme a quelle della cinquina dei Nastri d’Argento, ristoranti pronti a riproporre le ricette di Ugo e una regata velica. In più quest’anno lo Scolapasta d’Oro tornerà nella nuova veste di Padella d’Oro grazie a un torneo di padel e ci sarà l’annullo del francobollo per Ugo Tognazzi fatto da Poste Italiane. Mio padre verrà grandiosamente celebrato, ma penso che questo si dovrebbe fare per tutti i grandi esponenti della nostra arte come Gassman, Pasolini, Vianello e Salce, perché il tramando culturale come fenomeno di continuità è fondamentale per alimentare il nostro presente, non possiamo accusare i nostri giovani di ignorare la nostra cultura se non la conoscono abbastanza. La gente ha voglia di riappropriarsi di quell’Italia positiva e riportarla in vita può essere un modo per ripartire, per capire cosa abbiamo perso e da dove dobbiamo ricostruire”.

Com’è stato avere un mito come padre? Com’era in casa Ugo Tognazzi?

“Con i loro docufilm i miei fratelli Maria Sole e Ricky sono riusciti a far vedere quanto la figura pubblica di nostro padre fosse proporzionale e coerente a quella privata. Ugo aveva passione e carisma, viveva nel contatto diretto con tutti e nella sperimentazione. L’Ugoismo era una grande forma di altruismo, così come la sua passione per la cucina: lui godeva nel vedere gli altri beneficiare di ciò che poteva offrire loro, si definiva ironicamente “un povero che mantiene un famiglia di ricchi”. Cercava sempre di empatizzare, quando conosceva qualcuno esordiva con una gaffe per liberarsi dal mito di Ugo Tognazzi e mostrarsi nella sua naturalezza. Era libero e lasciava liberi, non ha mai influenzato noi figli. Portarci sui set era un modo di giocare e recuperare le sue assenze a casa, assenze non per forza fisiche, ma anche di distrazione, spariva per preparare la cena che era il fulcro della serata. Ugo lo vedevi più sui libri di cucina che su un copione, dei copioni se ne parlava a tavola dove, tra gli scherzi e le risate, nascevano le idee. Era un uomo di grandi intuizioni: negli anni ’60 vide la necessità del ritorno all’orto fatto in casa per una cucina del futuro basata sulla materia prima controllata; aveva creato una famiglia allargata, con grande scandalo dei bigotti dell’epoca, ma oggi è la normalità”.

Come pensa di aver affermato la sua identità di artista staccandosi dallo stigma “figlio di”?

“Dell’essere figlio d’arte un conto è la percezione che si ha all’interno e un conto quella dall’esterno. In Italia per il 50% delle persone è una cosa positiva l’aver respirato arte fin dalla nascita e per l’altro 50% è l’opposto, vede solo una categoria di privilegiati raccomandati. Io porto l’onestà intellettuale di Ugo e so bene quali sono i privilegi, i vantaggi, ma anche le responsabilità di essere suo figlio quindi me ne sono sempre fregato del qualunquismo e dei luoghi comuni. Tante volte mi hanno chiesto quanto mi sia pesato essere figlio di, ma la domanda che ad un certo punto ho fatto io è stata: ‘Quanto pesa agli altri?’ A molti dà fastidio, come se fosse una colpa. Io penso che si debba portare avanti onestamente ed individualmente un proprio percorso, senza emulare per forza, se ci sono delle qualità ereditate che vengono fuori naturalmente è meraviglioso, se invece sono forzate creano solo una brutta imitazione. Penso anche che sia una follia fare un paragone tra una persona di un’altra epoca alla fine della sua carriera ed un’altra nel mezzo del suo percorso in un contesto sociale completamente diverso. Non è una gara”.

Come pensa di tramandare l’Ugoismo fuori dal mondo dell’arte?

“Nel 1969, a Velletri, mio padre fondò ‘La Tognazza amata’, un’azienda eno-gastronomica che dal 2010 ho ribattezzato ‘La Tognazza azienda vitivinicola’ e dirigo. Lì, con libertà e passione, provo a riprodurre il lifestyle di Ugo. La qualità del vino è la mia parte seria, come la cucina per Ugo, ma il clima intorno ci differenzia dal panorama vitivinicolo: non c’è solo il tecnicismo, ma tutto un modo di intendere la vita, è un manifesto di libertà. Anche la follia che mettiamo nelle nostre etichette riflette la voglia della condivisione nel rispetto delle unicità, della riappropriazione dello stare insieme perché, come diceva Ugo, solo così nascono grandi progetti”.

Suo padre rimarrà indimenticabile anche per le sue goliardate, da quella con Vianello che gli costò la chiusura del programma Un due tre allo scherzo del ’79 per la rivista Il Male con il finto arresto con l’accusa di essere a capo delle Brigate Rosse che rivendicò come “diritto alla cazzata”. Cosa ne pensa?

“In queste sue parole c’è la sua genialità: tutti abbiamo il diritto di combinarne una grossa, c’è la libertà di pensiero, poi ci si può rendere conto e scusarsi. In più tutto va contestualizzato. Con Vianello mio padre aveva un grande affinità artistica nonostante fossero diversissimi in tutto, nessuno era la spalla dell’altro. La gag con lui nacque dall’improvvisazione sull’attualità. Ne avevano fatte anche di peggio, ma in un’Italia bigotta non si poteva ridere di tutto così vennero censurati. Paradossalmente ciò non fece altro che dar loro ancora più popolarità”.

Ha ripercorso le orme di suo padre anche in un legame importante: quello con i Gassman. Com’era il rapporto tra Vittorio Gassman e suo padre e il suo con Alessandro?

“L’amicizia tra mio padre e Vittorio era nata da affinità, stima reciproca e rispetto delle loro nette differenze, erano opposti, l’unica cosa in comune era la forte ironia ed auto ironia. Vittorio, a dispetto della sua immagine elitaria, era un uomo divertentissimo. Sono stati grandi colleghi e grandi amici. Le stesse affinità e differenze hanno caratterizzato l’amicizia tra me e Alessandro Gassman, ci siamo incontrati prima da figli e spettatori, poi da attori. Dal 1993 abbiamo formato una coppia artistica per un decennio. Sia Ugo e Vittorio sia io e Alessandro abbiamo trovato un equilibrio uguale, ma diverso nella nostra differenza, nella compensazione dei nostri modi di essere, trovando anche tante similitudini: anche la famiglia Gassman è una famiglia allargata come la nostra però a differenza di essere basata sulla convivialità di Ugo che rendeva noi Tognazzi inclusivi e caciaroni, i Gassman erano più rigorosi e riservati”.

Contribuisce a rendere eterno suo padre, ma lei per cosa vorrebbe essere indimenticabile?

“Tenere vivo mio padre è un doveroso atto di stima e riconoscenza. Non si devono fare le cose per rimanere nella memoria, si fanno perché ci si crede nella piena onestà di ciò che si è. A me piacerebbe essere ricordato perché ho fatto in modo che non si perdesse la mia matrice: Ugo e il suo lifestyle. Vorrei che riappropriassimo del nostro futuro partendo dal ritrovare il nostro passato, rimanendo liberi, ma con la capacità di fondere idee e pensieri e di stare insieme nel divertimento”.

Pubblicato sul settimanale Visto