L’opera della Apg23 a Nairobi tra i ragazzi di strada

Le storie dei ragazzi di strada salvati dall'opera di Simone Ceciliani, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, che a Nairobi porta avanti una casa di accoglienza per minori

Foto di Joseph Ndungu su Unsplash

La testimonianza a L’osservatore Romano di Simone Ceciliani, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII che a Nairobi porta avanti, tra le altre opere, una casa di accoglienza per minori, molti dei quali hanno vissuto per strada prima di essere accolti. La Comunità Papa Giovanni XXIII è presente a Nairobi dal 1997.

L’opera della Apg23 a Nairobi tra i ragazzi di strada

West è il nome di uno dei quartieri dell’estrema periferia orientale di Nairobi, la città più grande dell’Est Africa. Qui la Comunità Papa Giovanni XXIII porta avanti, tra le altre opere, una casa di accoglienza per minori che in circa quindici anni si è presa cura di un centinaio di ragazzi, che hanno potuto contare su un luogo sicuro da cui poter ripartire.

I ragazzi accolti oggi sono 15 e, di questi, circa i due terzi hanno vissuto la realtà della strada. Mi trovo qui con Simone Ceciliani, 38 anni, direttore del centro, a cui chiediamo di parlare della sua percezione della violenza in questo contesto dopo dodici anni di esperienza diretta di attività in strada e di vita condivisa con i ragazzi stessi: «La violenza tra giovani con questo background e nei loro confronti è molto diffusa, si potrebbe dire che sia presente in maniera strutturale all’interno delle loro vite: è operata dalla polizia, dai ragazzi più grandi nei confronti dei più piccoli sotto forma di bullismo, dalle famiglie che si disinteressano deliberatamente di loro, dalle persone che restano indifferenti al fenomeno o, al contrario, che li disprezzano per la condizione in cui versano. I bambini più piccoli possono avere fino a sei anni e, data la loro capacità di muovere a compassione i passanti nelle elemosine, vengono ricattati dai più grandi che in cambio offrono protezione».

Le testimonianze

Kadogo ha 16 anni, è stato accolto nel centro quattro anni fa e, dal 2013 al 2019, ha vissuto per le strade di Githurai 45, un quartiere di Nairobi: «Quando avevo otto anni mi alzavo alle quattro del mattino per iniziare a fare l’elemosina e per le sette avevo già abbastanza soldi per poter fare colazione con i miei amici e comprare la “gundi” – la colla che viene inalata portando alla bocca piccole bottiglie per annullare il senso di fame. In strada i più grandi o ti proteggono o ti bullizzano, si può contare su poche persone alla roundabout».

Githurai 45 si presenta come un quartiere caotico attraversato da una superstrada il cui epicentro è una roundabout, una rotonda molto trafficata, situata sotto il cavalcavia che taglia in due il quartiere. Proprio qui, accasciati negli scoli dell’acqua, parecchi ragazzi trovano rifugio per la notte. Kadogo racconta che anche lui era uno di loro e, quando gli chiedo la cosa che gli facesse più paura di quel luogo terribile all’età di otto anni, mi risponde: «Di essere sparato! Qui la polizia non ha mezze misure, una volta ho visto un mio amico che dopo essere stato sorpreso con un telefono rubato tra le mani è stato ucciso a sangue freddo. Diverse volte sono stato picchiato dalla polizia, è normale, la polizia qui non scherza».

Un altro dato su cui riflette Ceciliani è l’assenza di una società educante per le strade di questi quartieri: «Può capitare che uno dei nostri ragazzi scappi dal centro per tornare in strada, ma questo è possibile solo perché, persino nel quartiere in cui vive, non vieni riportato a casa. Anche questa indifferenza è una grave forma di violenza. Vivere in strada è ritenuto normale anche per ragazzi molto piccoli».

La “peer pressure”

Chiedendo a Kadogo quale sia per lui la causa scatenante della violenza che ha visto nella sua vita di strada, ci parla senza esitare di una reazione alla peer pressure, letteralmente “la pressione dei pari”: il senso di inadeguatezza che provoca ciò che i coetanei sono in grado di fare.

Vedere la violenza come unico meccanismo di regolazione dei conflitti e vedere i propri compagni oltrepassare il limite anno dopo anno, porta in un vortice di dipendenza dalle aspettative altrui. Dalle parole di Kadogo è come se questa pressione l’avesse costretto all’essere vincolato alla strada, all’utilizzo di sostanze stupefacenti, alla dipendenza alle stesse, a crimini di vario tipo. Kadogo dopo più di sei anni di strada ha scelto di cambiare vita per raggiungere il suo migliore amico che, qualche mese prima di lui, ha scelto di lasciare Githurai. Forse è stato un effetto boomerang positivo della stessa peer pressure che l’aveva portato a scegliere la strada.

Fonte: L’Osservatore Romano