Cosa sono i Pir

Pare che, ultimamente, i Piani Individuali di Risparmio, o Pir, siano divenuti il principale argomento di discussione a livello finanziario ma, nel tam tam mediatico successivo alla loro introduzione, si è capito esattamente cosa siano?

Innanzitutto va sottolineato che questi siano dei prodotti di investimento, introdotti a livello normativo con la Legge di Bilancio 2017 (la L. 232/2016 per essere precisi) che ne ha stabilito le caratteristiche e le modalità di collocamento.

Questo strumento finanziario, in realtà, non è nuovo, ma è presente dal 1992 in Francia come Plan d’Epagne en Actions (Pea) e dal 1999 in Inghilterra come Individual Savings Account (Isa) e hanno, in effetti, rappresentato un volano sial per le imprese sia per l’afflusso di capitali nel mercato finanziario, tanto che Assogestioni auspicava l’introduzione nel nostro ordinamento di questo prodotto già da diversi anni, ma vediamo, esattamente, di cosa si tratti.

Il Pir è, in pratica, un “contenitore” che può avere la forma di Oicr, Etf, gestione patrimoniale, contratto di assicurazione o anche di mero deposito titoli all’interno del quale il sottoscrittore può investire in qualsiasi strumento finanziario secondo dei rigidi paletti stabiliti dalla legge. Prima di tutto i Pir sono destinati esclusivamente agli investitori privati cioè persone fisiche che investono al di fuori dell’attività di impresa e ognuno di essi ha la possibilità di sottoscrivere un solo piano di risparmio entro la somma massima di 30 mila euro annui, per un periodo non inferiore a 5 anni e per un massimo di 150 mila euro totali.

Un’altra caratteristica fondamentale del prodotto viene dalla composizione del portafoglio sottostante che deve avere delle caratteristiche di diversificazione particolari, deve essere composto cioè:
almeno per 70% in strumenti finanziari emessi da imprese italiane oppure europee, purché con una stabile organizzazione in Italia, di cui, poi, almeno il 30% in strumenti finanziari emessi da imprese che non sono presenti nell’indice FTSE MIB;
il restante 30% in qualsiasi altro strumento finanziario (compresi conti correnti e depositi bancari);
i prodotti emessi dall’emittente o da altra società appartenente al medesimo gruppo non possono superare il limite del 10% del portafoglio per evitare rischiose concentrazioni di portafoglio del risparmiatore.

Il vero plus del Pir è rappresentato dalla possibilità di portare capitali verso le imprese più piccole del listino italiano, che magari non sono considerate nella strutturazione dei prodotti di investimento tradizionali e, dal lato del sottoscrittore, da un vantaggio fiscale che azzera l’imposta sul capital gain (il 26% in Italia) se il prodotto fosse mantenuto per più di 5 anni in portafoglio.

Dalla descrizione fatta finora sembrerebbe che il Pir sia lo strumento perfetto, fatto per avvicinare le esigenze del mercato a quelle del piccolo risparmiatore, a cui è indirizzato, di collocare parte del suo risparmio in una gestione che possa non solo tutelarlo ma anche contribuire ad accrescerne il valore.

Ovviamente, usando una frase fatta, non è tutto oro quello che luccica.
Bisogna comprendere, infatti, che la sottoscrizione di un Pir sia l’acquisto di un prodotto finanziario che non è privo di rischio: investire in azioni, obbligazioni, strumenti derivati ed altro (tutti sottostanti ammessi nella strutturazione del piano di investimento) comporta sempre un certo rischio sia di mercato, esponendo l’investimento alle oscillazioni dello stesso, sia di credito, visto che gli emittenti potrebbero andare in default.

Non è certo un disincentivo, questo, visto che la differenziazione che un gestore professionale può e deve garantire va a minimizzare il più possibile la probabilità di eventi avversi ma la consapevolezza che non esista un investimento sicuro al 100%, nemmeno il mantenimento della liquidità “sotto il materasso”, deve essere una nozione sempre impressa nella mente di ogni persona.

Detto questo c’è un altro punto da tenere in considerazione che è il vero rendimento dei prodotti finanziari, anche se in esenzione di imposta come questi. L’agevolazione fiscale, infatti, è relativa al capital gain, quindi al calcolo del rendimento del capitale impiegato ma non sull’imposta di bollo prevista per il deposito titoli.A questo vanno aggiunti gli oneri bancari di tenuta conto, i costi di intermediazione e i costi vivi della gestione del Piano.

La maggior parte dei Pir sul mercato o in fase di arrivo prevedono dei costi di sottoscrizione, un management fee (cioè il compenso del gestore) e un performance fee (un compenso ulteriore di risultato al gestore), sempre che non si tratti di un Pir assicurativo dove i costi di gestione della polizza e della gestione separata sottostante sono nettamente superiori rispetto a quelli di un Oicr o di una gestione finanziaria.

Sottoscrivendo il piano occorre essere consapevoli che non basta una performance positiva almeno nei 5 anni previsti per avere un vero vantaggio ma occorre che questa sia superiore ai costi sostenuti per l’acquisto e la gestione dello strumento.

A titolo di esempio se ci fosse un 2% di commissione di ingresso, un management fee al 1.75% e un performance fee del 2% se superato il valore benchmark indicato (mettiamo il 4% annuo) un rendimento cumulato del 7% medio annuo su 30.000 euro a versamento unico renderà alla fine circa 12.000 euro (ovviamente senza imposte) a cui vanno sottratti 600 euro per la sottoscrizione iniziale, circa 2.700 euro di gestione e 90 euro per l’over performance portando così il guadagno finale a circa di 8.600 euro.

Se, invece, il mercato fosse stato sfavorevole e il guadagno medio fosse stato del 2% annuo il rendimento esentasse sarebbe stato circa 3.120 euro a cui vanno sottratti i 600 euro di sottoscrizione e i 2.700 circa di gestione portando il rendimento finale a circa – 180 euro. Tutto questo è soggetto, poi, all’imposta di bollo dello 0,2% annuo cioè di 300 euro circa in cinque anni, ipotizzando spese bancarie nulle.

Quando si sottoscrive un prodotto finanziario, in definitiva, di deve essere consci che le potenzialità di guadagno corrispondono a un certo grado di rischio, anche di perdere completamente il capitale; questo non per scoraggiare nessuno nel farlo, sia chiaro, ma per sottolineare che quando si discuterà con il proprio consulente (o se si facesse da soli, ovviamente) occorrerà valutare oltre alla propria propensione al rischio anche una differenziazione ottimale del proprio patrimonio per non rischiare che un’eventuale perdita possa incidere in maniera significativa sul capitale fin lì accumulato.