Un mondo piccolo piccolo

Il coronavirus ha messo a nudo le nostre fragilità. Ma riusciremo a trarre insegnamento dalla lezione impartita dalla pandemia?

Da Indiana Jones ai film horror, fino ai musei che espongono e spiegano metodi di tortura medioevali, non è nuova l’immagine di una stanza apparentemente spaziosa, in cui un malcapitato si trova intrappolato, le cui pareti iniziano lentamente a muoversi, riducendo sempre di più lo spazio vitale fino a schiacciare la povera vittima. È una tortura spaventosa, dalla quale, a seconda del film, l’eroe riesce talvolta miracolosamente ad evadere. Noi spettatori proviamo al momento della liberazione un’incredibile sensazione di sollievo, come se fossimo stati noi ad osservare impotenti il nostro mondo contrarsi, rimpicciolirsi, minacciare di comprimerci.

Ebbene, questa è la sensazione che stiamo sperimentando in questo lungo periodo di isolamento coatto. Il nostro vasto mondo si è contratto implacabilmente, costringendoci ad arretrare, strisciare e raggomitolarci in un angolo delle nostre esistenze. Prima godevamo di una sconfinata libertà di movimento. Padroni dello spazio, sfrecciavamo con noncuranza per il mondo. Poi, un campanello di allarme, le prime restrizioni, l’incapacità di lasciare il nostro Paese. Non importa, pensiamo baldanzosi, non sarà per sempre, l’Italia è grande, va tutto bene. Lo spazio si è ridotto ancora. Restate nelle vostre regioni. Seccante, ma non importa, la regione non è poi così piccola, posso sempre andare in montagna, al lago, frequentare gli amici. Ma non è ancora sufficiente ad arginare l’invisibile, insidiosa minaccia che si fa strada tra noi.

Le pareti si stringono ulteriormente, non possiamo lasciare le nostre città. Il senso di soffocamento è reale. Ma ancora possiamo muovere qualche passo, raggiungere qualche amico, qualche familiare, sperare che la contrazione del nostro universo personale si fermi lì. E invece no. Il nemico è tra noi, sta mietendo vittime con furia silenziosa. E arriva il lockdown. Le quattro pareti di casa diventano tutto lo spazio al quale abbiamo diritto. Incapaci di muoverci, incapaci di sfuggire. La mente, come un passero intrappolato, inizia a sbattere furiosamente le ali, a schizzare in mille direzioni. Dobbiamo evadere. Fisicamente non è possibile, nella nostra frustrazione percepiamo che la clausura è l’unico sistema per fronteggiare la minaccia. Allora proviamo fughe tecnologiche, ci abbarbichiamo al mondo digitale come un’ancora.

Gli amici sono lì, dietro il nostro schermo, le notizie sono lì, il mondo è lì! Basta premere un tasto e una sintetica ventata di aria fresca irrompe nelle nostre stanze soffocanti. Ci costruiamo una nuova routine, una nuova realtà. Nulla è troppo stravagante, pur di sfuggire all’ansia che ci attanaglia. Ognuno reagisce come sa, come può, riporta a galla vecchie passioni, riscopre vecchi talenti, rispolvera amicizie dimenticate, arriva perfino a riporre antichi rancori nella tensione disperata verso l’altro. Per scacciare la bestia della solitudine. Perché questa è la verità. Ci siamo resi conto di essere orribilmente soli. Noi, che prima di questa esperienza ci fregiavamo, con snobismo elitario, della nostra capacità di fare a meno dell’altro, abbiamo scoperto che senza socialità siamo paguri senza guscio. Inermi e affranti. Noi, che programmavamo cene al solo scopo di disdire, individuando nel farci desiderare una prova della nostra importanza, ci troviamo ad elemosinare un messaggio, un saluto, un contatto. Un…qualcosa che ci faccia sentire ancora vivi. Perché cos’è la nostra personalità, se non possiamo vederla riflessa negli occhi dell’altro? Cosa sono le nostre idee, se non possiamo condividerle? A cosa servono i nostri sogni, se il reagente che li renderà reali è necessariamente un altro essere umano?

Amiamo e odiamo la tecnologia, che ormai ci tiene asserviti, inchiodati, succubi e schiavi. Acqua e cibo non sono più sufficienti a tenerci in vita, staccare la connessione wifi significa tranciare l’ultimo contatto con la realtà. Siamo tutti vampiri energetici, abbiamo bisogno della vitalità dell’altro per rimanere attivi. Sennò, ci spegniamo come candele troppo esili.

Siamo tutti parte di un organismo interdipendente, una macchina di cui siamo un piccolo ingranaggio. Insignificanti ma fondamentali. Piccoli ma estremamente importanti. Questo è un pensiero che ci consola, nelle lunghe giornate che non passano mai, dove il domani è sempre uguale a ieri. Ogni volta che il telefono squilla, che una notifica appare sullo schermo, il nostro ego abbrutito, indebolito e preoccupato viene rianimato da una scintilla di speranza: per qualcuno, da qualche parte, contiamo qualcosa. La nostra energia vitale sta rinverdendo quella di un altro. Abbiamo un ruolo nel mondo. Non siamo inutili.

Usciremo da questa crisi. Torneremo alla frenesia della quotidianità, rideremo dei pensieri mortiferi che hanno attraversato la nostra mente in questi mesi, nel tentativo estremo di esorcizzare la parte oscura della nostra psiche.

La domanda è: tratterremo qualcosa delle lezioni impartiteci dalla quarantena? O ricominceremo a sentirci autosufficienti, onnipotenti, superuomini? Perché la natura ci ha provato, inconfutabilmente, che non lo siamo.