Don Currao e l’opera di assistenza pastorale al Policlinico Gemelli

Interris.it ha raccolto la testimonianza di Don Nunzio Currao, assistente pastorale del personale medico del policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma, sulla sua opera di apostolato anche tra i non credenti

Don Nuzio Curao. Foto da lui gentilmente concessa. A destra, un reparto ospedaliero. Foto di Hush Naidoo Jade Photography su Unsplash

Don Nunzio Currao è assistente pastorale dell’Università cattolica del Sacro Cuore e, da diversi anni, è anche assistente pastorale del personale medico del policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma. Don Currao percorre i corridoi del policlinico, uno dei più grandi d’Italia, tutti i giorni dell’anno incontrando, incoraggiando e a volte seguendo spiritualmente molti degli oltre 6mila operatori sanitari.

Anche questa Pasqua don Nunzio Currao l’ha vissuta accanto a quanti si spendono, quotidianamente, per curare i malati ed assistere i familiari. Interris.it lo ha intervistato per approfondire l’operato dell’assistente pastorale e per comprendere come viene vissuto il messaggio pasquale di resurrezione in un luogo di speranza ma anche di sofferenza qual è l’ospedale.

L’intervista a don Nunzio Currao

Da quanto tempo opera in ospedale?

“Frequento il Policlinico Gemelli da 32 anni, da quando ero seminarista al Seminario Romano Maggiore. Anche dopo, quando iniziai la vita in parrocchia – ci restai per 25 anni: 10 anni come viceparroco della parrocchia Gesù Divino Maestro poi 15 come parroco a San Filippo Neri a Roma – andavo tutti i giorni in ospedale a trovare i malati, seguendo una delle Opere di Misericordia: ‘visitare gli infermi’. Sei anni fa sono stato chiamato come assistente spirituale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore con il mandato di seguire il personale sanitario del Policlinico Gemelli, che conta circa 6.000 persone. L’università destina un assistente spirituale per il personale, mentre i malati sono assistiti da una comunità di frati francescani”.

Quali sono i compiti di un assistente spirituale ospedaliero?

“Sono quelli che sintetizzerei con le parole di Papa Francesco: prossimità, ascolto, accompagnamento. Questo avviene per lo più a livello personale attraverso la visita nei diversi reparti, ambulatori, studi, uffici. Il compito principale è proprio quello della vicinanza, della prossimità; e dell’ascolto dato a ciascuno. Inoltre, organizzo incontri con dei momenti di preghiera nei reparti: il personale si ferma 5-10 minuti per riflettere sul Vangelo della Domenica, o sulle letture del giorno; o perché magari festeggiamo i Santi della Carità. Ad esempio, per  la festa di Santa Lucia – protettrice dei ciechi, delle malattie degli occhi e degli oculisti – facciamo un bellissimo incontro di preghiera con l’Istituto di Oculistica. Per San Biagio lo facciamo con l’Istituto di Otorinolaringoiatria. Facciamo molta attenzione anche ai Santi Patroni delle diverse discipline. Sono tutte occasioni preziose per riunire insieme il personale, per riflettere insieme sulle parole della sacra Scrittura e su come poi viverle nel contesto – non sempre facile – dell’ospedale”.

Don Nunzio Currao al policlinico Gemelli di Roma, insieme agli operatori sanitari. Foto concessa da don Currao.

Lei ha vissuto 25 anni in parrocchia. Quali differenze ci sono tra la vita da parroco e quella come assitente spirituale ospedaliero?

“La differenza sta nel fatto che in parrocchia il parroco incontra principalmente i parrocchiani. Che sono tutti credenti e numericamente pochi, rispetto alla massa che vive in zona: la presenza dei fedeli in chiesa si attesta sul 18-20% della popolazione, vale a dire un quinto del totale. In ospedale incontro sempre tutto il personale: credenti, non credenti, atei…anche quelli che si mostrano a volte un po’ ostili alla fede o alla figura del prete”.

Come si comporta nei confronti dei non credenti?

“Come con i credenti. Nei riguardi di tutti c’è sempre un saluto, un sorriso. La semplicità di un ‘buongiorno’, nonché la presenza quotidiana, sono gesti semplici, senza barriere, che in alcuni hanno anche sciolto un’apparente chiusura dovuta a momenti di difficoltà, di contrasto, di non accoglienza. C’è sempre un motivo se la gente sulle prime si mostra un po’ reticente, distratta. Il mio scopo, quando incontro i nuovi assunti, è dunque quello di mostrarmi a loro col sorriso”.

Qual è la sfida principale che vive nell’apostolato?

“La sfida è tenere alto il termometro dell’umanità. Oggi, per come è impostato il lavoro in ospedale, si tende a una sorta di aridità nei rapporti interpersonali, di poca attenzione. Perché si deve correre per fare tante cose, per visitare tanti malati in poco tempo; e quindi si rischia di essere un po’ disattenti, di non intercettare il bisogno umano – non solo fisico -del paziente. E’ un lavoro enorme quello che fanno tutti coloro che lavorano in ospedale. Per questo è importante che riscopriamo e conserviamo tutti la nostra umanità”.

Cosa significa concretamente “riscoprire la propria umanità”?

“Significa sprigionare quanto di bello ciascuno possiede nel cuore: la capacità di ascolto, di amare, di stupirsi, di farsi prossimi, di condividere la sofferenza. Dentro il nostro senso di umanità c’è quello che io chiamo il mondo spirituale. Ci avviciniamo a Pasqua. Esiste una sorta di ‘ospedale nell’ospedale’, vale a dire il ‘day hospital’: tantissime persone che vengono nei reparti per poche ore, solo per fare il ricovero giornaliero, e poi tornano a casa. Il tempo per instaurare un rapporto è estremamente risicato”.

Come vive la sua missione nel tempo di Pasqua?

“In questo tempo pasquale mi ritrovo con gli operatori sanitari a pregare anche in questi reparti, magari nei corridoi. La gente si affaccia dalle stanze incuriosita e vede un messaggio di speranza: i propri medici e infermieri che pregano per la salute dei propri pazienti, per gli altri malati, per il bene dei familiari. E’ una cosa che infonde speranza e, non lo nascondo, genera in chi partecipa anche tanta commozione. Perché l’ospedale è spesso un luogo di sofferenza sia per i malati, sia per le loro famiglie; a volte, è il luogo delle ultime ore di vita di una persona cara. Ma il mistero centrale della fede non è soltanto la risurrezione di Gesù, bensì che essa è stata preceduta dalla morte e ancora prima dalla sofferenza. Queste sono dinamiche ‘pasquali’ che noi qui in ospedale viviamo quotidianamente, per tutto l’anno. Il fatto che i malati vedano il personale sanitario pregare con loro e per loro è un messaggio forte di risurrezione. Perché vedono l’incoraggiamento che viene da parte degli operatori a non demordere e, nella preghiera, a non sfiduciarsi: a credere che la vita è più forte della sofferenza e della morte”.