“Un padre non butta i suoi figli in mezzo alla strada”

La testimonianza a Interris.it di don Giuliano Fiorentini, fondatore delle comunità di recupero Oikos: "Per le misure anticontagio i centri diurni sono chiusi ma le residenze no: non possiamo abbandonare i tossicodipendenti e i bambini ricevuti in affido dal tribunale"

“Un padre non abbandona mai i suoi figli, tanto meno in una situazione di emergenza“. L’appello di Papa Francesco per una Chiesa in prima linea a sostegno delle fasce sociali più danneggiate dalla pandemia è stato accolto da don Giuliano Fiorentini, fondatore nelle Marche delle comunità di accioglienza e di recupero Oikos.

Quale impatto ha avuto il lockdown sulla vostra attività di assistenza?

“Le misure anti-contagio hanno reso necessaria la chiusura dei centri diurni per gli adulti tossicodipendenti, mentre sono rimaste aperte e proseguono il loro servizio le residenze nelle quali ospitiamo i minori che ci sono stati affidati dal tribunale e i tossicodipendenti che stanno proseguendo il loro percorso di liberazione dalla droga”.

Come è nata questa decisione?

“Non potevamo abbandonare a loro stessi soggetti fragili che hanno bisogno del nostro aiuto. Siamo una famiglia e in famiglia nessuno viene buttato per strada. E’ un dovere etico che non cessa in una situazione di emergenza collettiva, anzi diventa più stringente”.

Quali precauzioni avete adottato?

“Da oltre quaranta giorni stiamo molto attenti nelle nostre strutture a scongiurare il pericolo che si è materializzato purtroppo nelle Rsa, le residene sanitarie assistenziali per gli anziani. Stiamo facendo tutto il il possibile per evitare che il virus faccia il suo ingresso nelle nostre comunità come è successo nelle case di riposo attraverso i dipendenti e i familiari in visita. Nella consapevolezza di avere sotto la nostra responsabilità soggetti fragili e un po’ più a rischio degli altri cittadini, abbiamo ridotto allo stretto indispensabile il numero delle persone che entrano ed escono nei centri Oikos”.

Come vi siete organizzati?

“Abbiamo dovuto adattare i turni degli operatori che lavorano nelle nostre comunità e in pandemia ci siamo trovati nella necessità di rinunciare al servizio dei volontari che prestano servizio nei centri perché è troppo alto il rischio di far entrare dall’esterno persone che si alternano per una o due mezze giornate a settimana. Inoltre, per evitare assembramenti e rispettare il distanziamento sociale, i pranzi e le cene si svolgono nelle residenze seguendo un sistema di doppi orari in modo che in refettorio non ci siano mai troppe persone contemporaneamente”.

Di quali dispositivi sanitari siete provvisti?

“Mascherine e gel igienizzante per chi entra ed esce dalle nostre strutture. Agli operatori che abitano nelle proprie case viene misurata la temperatura ogni volta che rientrano a lavoro nelle comunità. E gli ospiti delle nostre residenze non possono uscire”.

E’ difficile gestire una situazione del genere in luoghi già complicati?

“Sì. Ci sono momenti di tensione. Grazie a Dio nelle nostre strutture abbiamo dei giardini per consentire passeggiate e attimi di svago. L’attenzione è massima soprattutto per i nuovi ingressi in comunità. Per chi in pandemia viene inserito nelle residenze abbiamo stabilito una quarentena obbligatoria di due settimane in una stanza singola con bagno. Solo dopo questo isolamento precauzionale i nuovi entrati vengono a contatto per le attività quoridiane con gli altri ospiti. L’insierimento nel gruppo è necessariamente graduale”.

 

Cosa le pesa di più di questa condizione emergenziale?

“Sono anche parroco e forza di cose vengo a contatto con un certo numero di persone esterne alle nostre comunità. Mi capita di dover andare in banca o al supermercato perciò in questo periodo così delicato mi trovo costrett a ridurre la mia presenza nelle residenze per tutelare i nostri ragazzi in terapia e in bambini che ci sono stati affidati. Sono razionalmente consapevole che la la mia minor frequenza è mortivata dalla salvaguardia della loro salute ma è interiormente un motivo di profonda sofferenza. Un’ulteriore dispiacere è la chiusura temporanea dei centri diurni come di Ancona”.

Qual è stata la motivazione della chiusura?

“Gli adulti tossicodipendenza che aiutiamo nei centri diurni stavano da noi otto ore poi uscivano e tornavano. Impossibile evitare il contagio  con un simile andirivieni. Adesso li assistiamo a domicilio, vivono nelle loro case, nessuno è stato abbandonato. E’stata una misura indispensabile per osservare le giuste regole del lockdown, in collaborazione con i servizi sociali e le autorità sanitarie”.

Per gli operatori è particolarmente dura?

“Devono fronteggiare in servizio una straordinaria situazione di tensione interna alle comunità. E’ una condizione pesante che si protrae dal 26 febbraio e tutto questo è particolarmente impegnativo in realtà come le nostre. Abbiamo applicato nelle strutture una protocollo predisposto specificamente con i medici del lavoro. Non era neppure ipotizzare di chiudere le residenze e mettere in mezzo alla strada persone bisognose delle quali ci prendiamo cura da tanto tempo”.

Cosa comporta per lei il lockdown?

“Tenere aperte le comunità in pandemia è economicamente pesantisssimo ma moralmente doveroso. Gli operatori che hanno difese immunitarie basse o situazioni di pericolo sono a casa in malattia e non rischiano di fare avanti e indietro da casa loro alle strutture in cui lavorano. Ho l’obbligo di difendere la salute sia degli ospiti sia dei dipendenti. I volontari hanno interrotto il servizio e sono state sospese le visite dei familiari dei nostri ospiti. Al posto degli incontri abbiamo predisposto colloqui attraverso le videochiamate per evitare che i contagi arrivino proprio da che entra in visita come è accaduto nelle case di riposo”.