Mps-Unicredit: i nodi da sciogliere

Nell’epoca degli M&A bancari, effettuati o ventilati, oggi è agli onori di cronaca la questione Monte dei Paschi di Siena. La banca, inutile nasconderlo, non naviga in buona acque da diversi anni, almeno fin dall’acquisto di banca Antonveneta effettuato nel 2007 quando, dopo lo “spezzatino” di ABN AMRO con l’acquisizione della banca olandese da parte di una cordata composta da Santander, Royal Bank of Scotland e Fortis, gli spagnoli decisero di cedere la controllata italiana e proprio MPS si fece avanti.

Il prezzo medio di cessione delle filiali fu stimato in circa 10,5mln di euro cadauna, l’acquisto degli sportelli di BAV, quindi, a un prezzo di circa 8,3mln di Euro l’uno, sulla carta, sarebbe stato sicuramente vantaggioso se non fosse che, oltre agli sportelli, si andava a assorbire una banca intera: questo fu l’errore più spaventoso, non considerare, cioè, che, oltre alla rete territoriale, si andava a incorporare anche la raccolta e gli impieghi, compresi anche quelli che oggi rientrano nella categoria delle Non Performing Exposures, cioè crediti scaduti, incagli e sofferenze, che mai furono valutati prima dell’operazione.

Alla fine il costo complessivo dell’acquisizione arrivò a circa 16 miliardi di euro, andando a cannibalizzare tutta la liquidità dell’istituto senese che, per evitare contraccolpi decise di coprire il “buco” con due operazioni finanziarie dai nomi ellenici, cosa che dopo la crisi del debito greca potrebbe anche suonare piuttosto ironica: Alexandria e Santorini.

Brevemente vediamo cosa fossero queste due operazioni:

  • Alexandria fu progettata insieme alla banca d’affari Nomura e si strutturò su due contratti, il primo che cartolarizzava delle attività sub prime di MPS in un insieme di titoli strutturati in cambio di BTp, finanziando il tutto mediante un Pronti Contro Termine con quegli stessi BTp come sottostante, e il secondo, un IRS (Interest Rate Swap) che avrebbe permesso di ridurre il rischio di tasso sull’operazione precedente;
  • Santorini, invece, fu approntata con Deutsche Bank e si strutturò come un’operazione di Pronti Contro Termine con cui MPS cedette alla banca tedesca dei titoli di stato italiani (precisamente dei BTp a trent’anni con cui la Banca aveva riempito i portafogli nei mesi precedenti) per ottenere in cambio liquidità.

È evidente che queste due operazioni andassero ben oltre la prudente gestione che la Legge stessa impone agli istituti di credito e che si avvicinassero più all’operato di un Hedge Fund che a quello di una banca; in più non fu usato, contrariamente a quanto avrebbe fatto un fondo speculativo, alcun sistema efficiente di copertura dai rischi di future perdite tramite la finanza derivata, eccetto l’IRS inserito in Alexandria, cosa che, in pochi anni, portò MPS sull’orlo del fallimento.

Non fu solo una questione di NPE, i crediti deteriorati che misero in crisi tempo dopo diversi altri istituti e che anche qui hanno avuto un ruolo centrale, ma anche la ricerca dell’utile mantenendo in portafoglio un quantitativo quasi doppio rispetto alla media delle banche italiane di titoli di stato con la crisi del debito del 2011 tutti i nodi, fino allora nascosti, si manifestarono nella loro criticità.

Nonostante le politiche di crescita dimensionale, portate avanti dal board guidato da Giuseppe Mussari, facessero parte di una strategia volta a far concorrenza diretta ai due grandi italiani, Unicredit e Intesa SanPaolo, e con l’acquisizione di AntonVeneta Rocca Salimbeni divenne il terzo gruppo italiano, l’incremento della clientela e degli attivi non riuscì a mitigare le negatività create dalla gestione finanziaria.

La seguente gestione dell’istituto, a guida di Alessandro Profumo, verificò e quantificò le componenti deteriorate dell’attivo facendo emergere perdite, fino ad allora occultate, per oltre 700mln di euro; questo innescò un ciclo vizioso di perdite in conto capitale che fu bloccato solo con l’intervento diretto del Tesoro e la nazionalizzazione della Banca.

Oggi l’Unione Europea chiede che la partecipazione di maggioranza dello stato in MPS sia ceduta sul mercato, privatizzando nuovamente la banca entro la fine del periodo di bilancio 2021 ma un’ipotesi di mantenimento dell’indipendenza dell’istituto senese è, oggi, estremamente difficile da portare avanti, nonostante le richieste in tal senso da parte della politica locale.

La pulizia di bilancio, per ridurre la quota di crediti deteriorati in bilancio, è stata, infatti, molto pesante.

Con l’operazione Hydra, di fatto, è stata creata quella che può essere definita una bad bank su cui si sono scaricate sofferenze, incagli e past due per lasciare la banca senese pulita, il tutto ha comportato costi ingenti che sommati alle perdite registrate lo scorso anno hanno portato il CET1, che è il rapporto tra il capitale versato, le riserve e gli utili non distribuiti con le attività ponderate per il rischio, al 12,1% e il CET1 fully loaded, che, per dirla con l’accetta, è lo stesso parametro calcolato sui requisiti futuri ancora non in vigore, al 9,9% contro un valore minimo, stabilito dalla BCE, del 8,74%.

Tutto bene?

No, perché a fronte degli stress test promossi da EBA poco tempo fa, nel caso peggiore, MPS ha avuto una proiezione del CET1 al 2023 negativa, cosa che indica la necessità di una ricapitalizzazione per poter mettere il patrimonio in sicurezza.

Ovvio che, stante la composizione dell’azionariato odierna, questa ricapitalizzazione risulterebbe come l’ennesimo aiuto di stato che l’UE non ammetterebbe mai e, di qui, l’ipotesi di stand alone diventa, di fatto, impercorribile aprendo la strada a delle “nozze obbligate2 con un altro istituto o alla cessione a qualche fondo che si sobbarchi, poi, l’onere dell’aumento di capitale.

Qui entra l’ipotesi Unicredit. Se si volesse essere precisi, oggi, MPS chiude il secondo trimestre di fila in utile, con un risultato riferibile al Q2 2021 positivo per 82mln di euro che porta il totale dell’H1 2021 a 202mln di euro circa in attivo, contro il “profondo rosso” registrato lo scorso anno, trainato da un incremento delle commissioni e del trading ma, nonostante questo, l’azienda necessiterebbe almeno 2,5mld di euro di capitale fresco per mettere in sicurezza il patrimonio entro il primo semestre del prossimo anno e una fusione permetterebbe, forse, di evitare un’operazione di aumento di capitale.

Ad essere interessati alla banca, al momento, ci sono solo due soggetti: il fondo di private equity americano Apollo e, appunto, Unicredit.

Mentre un’acquisizione da parte degli americani di Rocca Salimbeni potrebbe essere prodromica a una pesantissima ristrutturazione dell’istituto o, addirittura, a un cosiddetto “spezzatino” per valorizzare gli asset più redditizi, una fusione con la banca milanese potrebbe, invece, portare a un preciso progetto industriale volto a competere con il principale concorrente sulla piazza italiana, Intesa Sanpaolo, che, in effetti, è sembrata un po’ trascurata dai piani industriali portati a terra durante la gestione Mustier.

Anche questa soluzione, ovviamente, non sarebbe indolore, in questo caso, infatti, verrebbe meno, la “toscanità” della banca e il suo forte legame con il territorio, a cui va aggiunta una stima di circa 2’500 esuberi di personale da gestire, fortunatamente tramite il fondo di solidarietà bancario che, negli anni, si è dimostrato una soluzione più che efficiente in questi casi.

Nonostante queste criticità il ministro dell’economia Daniele Franco, che sarà chiamato a sovrintendere l’operazione in quanto principale azionista di MPS, sostiene che l’operazione con Unicredit sia una soluzione strategicamente superiore dal punto di vista dell’interesse generale del Paese, permettendo di mantenere gli asset in Italia e di non eradicare completamente il legame con il territorio, vista la natura di banca commerciale di Unicredit.

Al di là di ogni considerazione politica, in questo caso piuttosto pretestuosa, questa aggregazione presenta, poi, dei nodi ulteriori ancora da sciogliere, come il destino del marchio della banca (ancora in attività) più antica del mondo e la salvaguardia dei livelli occupazionali dovuti alla presenza della direzione generale di MPS a Siena.

Non sono sicuramente problemi da poco ma la soluzione qui prospettata sarebbe senza dubbio quella che permetterebbe una continuità industriale e una maggiore utilità per dipendenti e clienti nonché un consolidamento ulteriore del settore creditizio che, se ci sia necessità di ricordalo, è un comparto chiave nella tenuta di qualsiasi sistema economico.