Perché è stata chiesta una moratoria sullo sviluppo delle AI generative

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

“La prima macchina intelligente che inventeremo sarà anche l’ultima cosa che ci sarà permesso d’inventare”. (Arthur C. Clarke) Con questa citazione dell’autore di 2001: Odissea nello Spazio, riportata anche da Emilio Balcarce in apertura del suo Cronache del Tempo Medio, una delle opere a fumetti più disperate basate sull’incubo di un’apocalisse nucleare innescata dalla follia umana e da delle intelligenze artificiali impazzite, aprivo sei anni fa un articolo sulle inquietudini che lo sviluppo della robotica e delle intelligenze artificiali stavano suscitando nella gente. Guarda caso, allora come oggi, una delle voci allarmistiche più note era quella di Elon Musk.

Mentre allora, però, si trattava di un semplice avvertimento, benché condiviso da personalità come Bill Gates e Stephen Hawking, oggi si arriva a un livello, forse, superiore, firmando una petizione che chieda una moratoria, almeno semestrale, sullo sviluppo di AI generative come ChatGPT, per permettere ai governi mondiali di predisporre dei protocolli di sicurezza e sistemi di governance per le AI poiché lo sviluppo incontrollato potrebbe rappresentare un grosso rischio per l’umanità. La cosa più singolare è che tra i firmatari della petizione ci sia anche Sam Altman, presidente di OpenAI e creatore proprio di ChatGPT, che a ABCNews ha dichiarato “Negli ultimi mesi, i laboratori di intelligenza artificiale si sono bloccati in una corsa incontrollata per sviluppare e implementare cervelli digitali sempre più potenti, che nessuno, nemmeno i loro creatori, può capire, prevedere o controllare in modo affidabile”.

Ora, allarmi simili potrebbero rievocare suggestioni come quelle di Matrix delle sorelle Wachowski o quelle del Jihad Butleriano ipotizzato da Frank Herbert nella creazione della mitologia fondate del suo Dune ma, credibilmente, il vero timore non è tanto quello della creazione di un dominatore sintetico della Terra come poteva essere il Nerone di Balcarce o dell’Omnius di Herbert quanto la possibilità dell’uso di queste nuove forme di intelligenza artificiale sia per creare disinformazione strutturata sia come ausilio ad attacchi informatici sempre più potenti. Ma cosa c’è di vero in tutto questo?

Molti pensano che questo sia un tentativo di bloccare lo sviluppo di nuove forme di intelligenze basate sul machine learning, cosa che potrebbe andare ad azzerare certi vantaggi competitivi che le aziende di molti dei firmatari hanno ottenuto con il loro sviluppo delle AI, fosse anche solo di quella che governa il FaceID di Apple per esempio, ma credibilmente c’è qualcosa in più.

Il vero problema legato allo sviluppo attuale delle intelligenze artificiali è legato al lavoro e su questo difficilmente qualcuno potrebbe obiettare. Con lo sviluppo di sistemi autoapprendenti molte professioni diventerebbero obsolete e, perché no, inutili, creando un grosso problema dal lato reddituale delle persone. Niente reddito significa riduzione del potere di acquisto e, di conseguenza, della redditività delle imprese.

Già oggi si sta pagando il fio, in molte parti del mondo come in Italia, per la compressione salariale attuata negli ultimi decenni che ha bloccato la domanda interna e, volendo vedere, anche la crescita della produttività non avendo alcuno stimolo a investire e a migliorare potendo contare su un costo del lavoro sempre più basso. Le crisi economiche di questi ultimi anni e il rialzo repentino dei tassi di interesse in USA e in UE completano il quadro, mostrando come la capacità di spesa continui a deteriorarsi e non manca molto affinché anche il sistema industriale cominci a sentire il peso di questa criticità. Se a questo si aggiunge il salto tecnologico che uno sviluppo repentino delle intelligenze artificiali potrebbe innescare ecco pronta una bomba pronta a detonare.

Sgomberiamo il campo da ogni fraintendimento, questo non è e non vuole essere un discorso neo-luddista perché ogni rivoluzione industriale, causata da innovazioni tecnologiche di rottura, ha innescato dei circoli virtuosi di crescita, sia a livello professionale sia a livello di reddito; il punto critico è proprio il momento di discontinuità, quando molti impieghi scompariranno e saranno sostituiti da altri, che dovrà essere governato non solo dagli stati ma anche dal settore imprenditoriale per permettere il raggiungimento di nuovi livelli di crescita e produzione di ricchezza.

È evidente che sono questi i momenti in cui la mera politica di contenimento del costo del lavoro mostra la sua fallacia poiché le risorse umane sono un asset strategico importante e uno dei pochi su cui si possa investire facilmente garantendo un ritorno certo a tutto il sistema e proprio seguendo questa visione, investendo in formazione e riqualificazione professionale, sarà possibile rendere anche gli investimenti in sistemi informatici sempre più evoluti produttivi e redditizi.

Non è certamente l’ingenuo e inopportuno blocco di ChatGPT da parte del Garante della Privacy italiano la soluzione, ovviamente, ma forse, in effetti, la moratoria richiesta una sua profonda ratio l’ha veramente anche se in quest’ultimo senso, di progettazione dell’evoluzione della forza lavoro, più che in quello relativo agli allarmi di un futuro dominio delle macchine.

Già lo sviluppo attuale di ChatGPT (che significa Chat Generative Pre-trained Transformer cioè, più o meno, trasformatore pre-istruito generatore di conversazioni), che ha raggiunto la quarta generazione mostra diverse applicazioni pratiche che, in prospettiva, potrebbe “mandare in pensione” diversi ruoli occupazionali non trattandosi di un mero chatbot ma di un sistema che analizza le informazioni reperibili in rete e, ricordando le conversazioni precedenti, permette di affinare una risposta molto precisa alle richieste dell’operatore, generando testi coerenti su precisa richiesta, sia completando quelli già impostati sia creando nuovi contenuti, tradurre automaticamente da una lingua all’altra, analizzare il sentiment per rendere più efficace sia il servizio clienti delle aziende sia monitorare l’impatto delle pubblicazioni sui social media. È evidente che già a questo livello molti impieghi diventano quasi superflui, dal mero operatore di call center ai livelli più bassi di social media management e l’impatto di questa tecnologia va governato per evitare che l’azione di rottura data da un’adozione massiva di sistemi similari sul mercato del lavoro possa andare a generare un aumento della disoccupazione e, di conseguenza, una diminuzione del reddito disponibile di ampie fasce di popolazione che si tradurrebbe in un calo della domanda aggregata di beni e servizi. Non bisogna aver paura, però!

L’evoluzione tecnologica genera sempre timore e, in certe fasce di popolazione, quasi una sorta di rifiuto che, spesso, impedisce l’acquisizione di nuove competenze e abilità ma già nel medio termine porta a un miglioramento generalizzato della situazione andando a eliminare i lavori più bassi e, generalmente, alienanti per via della loro natura routinaria lasciando spazio a campi più stimolanti come il comparto strategico e si sviluppo/consulenza personalizzata.

Il problema è accompagnare l’insieme delle persone che, spesso, vengono indicate come “risorse umane” (che è un termine da un lato importante perché indica l’importanza dell’investimento sui collaboratori ma dall’altro spersonalizzante, almeno come visto dal molte aziende, che porta i lavoratori ad essere visti come un numero, un ingranaggio del sistema produttivo) verso il nuovo livello di professionalità richiesto.

Questo implica un investimento (non un semplice costo, va sottolineato, ma un reale investimento produttivo) nella formazione e nell’addestramento professionale, valorizzando i singoli e le loro specifiche competenze e qualità poiché ogni discontinuità data dal progresso tecnologico genera opportunità per tutti e queste vanno sapute cogliere, in primis dagli imprenditori e dalle società perché è dal reddito diffuso che si generano fatturati e profitti non dal mero risparmio di costi perché anche se tu potresti tagliare e minimizzare ogni costo se gli introiti non aumentino o, addirittura, diminuiscano avresti annullato ogni vantaggio ipotizzato con la razionalizzazione del sistema produttivo, arrivando asintoticamente anche a una crisi strutturale, anche definitiva, del tuo modello di affari.

Quest’ultimo è un concetto non esattamente diffuso nella mentalità dei manager, soprattutto in Italia, ma una delle cause principi della scarsa produttività nel paese e del nanismo delle imprese nasce tutta da qui, dalla compressione salariale quale unico vantaggio competitivo e dalla diminuzione della domanda interna e della “voglia di crescere” dei lavoratori che la mancanza di gratificazioni professionali ed economiche affossa definitivamente.

Non dico che questo sia il pensiero di Elon Musk, di Steve Wozniak e degli alti firmatari della lettera di moratoria allo sviluppo (tra l’altro prendendo come casus belli un prodotto di un laboratorio di cui Musk stesso è fondatore) ma l’allarme lanciato dovrebbe costituire un serio punto di riflessione per governanti e per i board delle società stesse perché per poter prosperare (e aumentare prospetticamente anche i guadagni, diciamolo chiaramente) non si può pensare a un modello solo di distruzione del lavoro e di risparmio ma a uno di distruzione creativa (per usare un famoso termine coniato da Schumpeter) che spinga tutto il sistema a un livello superiore, come già successe con l’introduzione della meccanizzazione nella prima rivoluzione industriale o dell’elettrificazione e dei motori a scoppio agli albori della seconda o, ancora, con l’introduzione massiva dei computer e la diffusione delle telecomunicazioni con la terza.