Messa crismale, Papa: “La compunzione ci apre all’amore di Dio”

L'omelia integrale di Papa Francesco alla Messa Crismale del Giovedì Santo è dedicata ala compunzione, partendo dal Vangelo che narra il tradimento e il pentimento di San Pietro

Messa crismale. Foto: Vatican News

Nell’omelia della Messa crismale del Giovedì Santo, che inaugura il triduo pasquale, presieduta nella basilica di San Pietro, Papa Francesco si è soffermato “su un aspetto della vita spirituale piuttosto tralasciato, ma essenziale; lo ripropongo oggi con una parola forse desueta, ma che credo ci faccia bene riscoprire: la compunzione”, che evoca il verbo pungere.

La compunzione, ha spiegato, “non è “un senso di colpa che butta a terra, non una scrupolosità che paralizza, ma una puntura benefica che brucia dentro e guarisce, perché il cuore, quando vede il proprio male e si riconosce peccatore, si apre, accoglie l’azione dello Spirito Santo, acqua viva che lo smuove facendo scorrere le lacrime sul volto”. Riportiamo l’omelia integrale.

L’omelia del Papa alla messa crismale

«Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui» (Lc 4,20). Colpisce sempre questo passaggio del Vangelo, che porta a visualizzare la scena: a immaginare quel momento di silenzio in cui tutti gli sguardi erano concentrati su Gesù, in un misto di meraviglia e di diffidenza. Sappiamo tuttavia come andò a finire: dopo che Gesù ebbe smascherato le false aspettative dei suoi compaesani, essi «si riempirono di sdegno» (Lc 4,28), uscirono e lo cacciarono fuori della città. I loro occhi avevano fissato Gesù, ma i loro cuori non erano disposti a cambiare sulla sua parola. Così persero l’occasione della vita.

Ma nella sera di oggi, Giovedì santo, avviene un incrocio di sguardi alternativo. Protagonista è il primo Pastore della nostra Chiesa, Pietro. Pure lui all’inizio non prestò fiducia alla parola “smascherante” che il Signore gli aveva rivolto: «Tre volte mi rinnegherai» (Mc 14,30). Così “perse di vista” Gesù e lo rinnegò al canto del gallo. Ma poi, quando «il Signore si voltò e fissò lo sguardo» su Pietro, questi «si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto […] E uscito fuori, pianse amaramente» (Lc 22,61-62). I suoi occhi furono inondati di lacrime che, sgorgate da un cuore ferito, lo liberarono da convinzioni e giustificazioni fasulle. Quel pianto amaro gli cambiò la vita.

Papa: “Piangere su noi stessi non significa piangersi addosso”

Le parole e i gesti di Gesù per anni non avevano smosso Pietro dalle sue attese, simili a quelle della gente di Nazaret: anche lui aspettava un Messia politico e potente, forte e risolutore, e di fronte allo scandalo di un Gesù debole, arrestato senza opporre resistenza, dichiarò: «Non lo conosco!» (Lc 22,57). Ed è vero, non lo conosceva: cominciò a conoscerlo quando, nel buio del rinnegamento, fece spazio alle lacrime della vergogna e del pentimento. E lo conoscerà davvero quando, «addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”», si lascerà pienamente attraversare dallo sguardo di Gesù. Allora dal «non lo conosco» passerà a dire: «Signore, tu conosci tutto» (Gv 21,17).

Cari fratelli sacerdoti, la guarigione del cuore di Pietro, la guarigione dell’Apostolo, la guarigione del Pastore avvengono quando, feriti e pentiti, ci si lascia perdonare da Gesù: passano attraverso le lacrime, il pianto amaro, il dolore che consente di riscoprire l’amore. Per questo da tempo ho sentito di condividere con voi, in questo Giovedì santo dell’Anno della preghiera, qualche pensiero su un aspetto della vita spirituale piuttosto tralasciato, ma essenziale; lo ripropongo con una parola forse desueta, ma che credo ci faccia bene riscoprire: la compunzione.

Che cos’è? La parola evoca il pungere: la compunzione è “una puntura sul cuore”, una trafittura che lo ferisce, facendo sgorgare le lacrime del pentimento. Un episodio, che riguarda ancora San Pietro, ci aiuta. Egli, trafitto dallo sguardo e dalle parole di Gesù risorto, nel giorno di Pentecoste, purificato e infuocato dallo Spirito, proclamò agli abitanti di Gerusalemme: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (cfr At 2,36). Gli ascoltatori avvertirono insieme il male che avevano compiuto e la salvezza che il Signore elargiva loro, e «all’udire queste cose – dice il testo – si sentirono trafiggere il cuore» (At 2,37). Ecco la compunzione: non un senso di colpa che butta a terra, non una scrupolosità che paralizza, ma una puntura benefica che brucia dentro e guarisce, perché il cuore, quando  vede il proprio male e si riconosce peccatore, si apre, accoglie l’azione dello Spirito Santo, acqua viva che lo smuove facendo scorrere le lacrime sul volto. Chi getta la maschera e si lascia guardare da Dio nel cuore riceve il dono di queste lacrime, le acque più sante dopo quelle del Battesimo[1].

Occorre però comprendere bene che cosa significhi piangere su noi stessi. Non significa piangerci addosso, come spesso siamo tentati di fare. Ciò avviene, ad esempio, quando siamo delusi o preoccupati per le nostre attese andate a vuoto, per la mancanza di comprensione da parte degli altri, magari dei confratelli e dei superiori. Oppure quando, per uno strano e insano piacere dell’animo, amiamo rimestare nei torti ricevuti per auto-commiserarci, pensando di non aver ricevuto ciò che meritavamo e immaginando che il futuro non potrà che riservarci continue sorprese negative.

“La compunzione è l’antidoto alla sclerocardia”

Questa – insegna San Paolo – è la tristezza secondo il mondo, opposta a quella secondo
Dio[2]. Piangere su noi stessi, invece, è pentirci seriamente di aver rattristato Dio col peccato; è riconoscere di essere sempre in debito e mai in credito; è ammettere di aver smarrito la via della santità, non avendo tenuto fede all’amore di Colui che ha dato la vita per me[3]. È guardarmi dentro e dolermi della mia ingratitudine e della mia incostanza; è meditare con tristezza le mie doppiezze e falsità; è scendere nei meandri della mia ipocrisia. Per poi, da lì, rialzare lo sguardo al Crocifisso e lasciarmi commuovere dal suo amore che sempre perdona e risolleva, che non lascia mai deluse le attese di chi confida in Lui. Così le lacrime continuano a scendere e purificano il cuore.

La compunzione, infatti, richiede fatica ma restituisce pace; non provoca angoscia, ma alleggerisce l’anima dai pesi, perché agisce nella ferita del peccato, disponendoci a ricevere proprio lì la carezza del medico celeste, che trasforma il cuore quando è «contrito e affranto» (Sal 51,19), ammorbidito dalle lacrime. La compunzione è dunque l’antidoto alla sclerocardia, alla durezza del cuore tanto denunciata da Gesù (cfr Mc 3,5; 10,5). Il cuore, infatti, senza pentimento e pianto, si irrigidisce: dapprima diventa abitudinario, poi insofferente per i problemi e indifferente alle persone, quindi freddo e quasi impassibile, come avvolto da una scorza infrangibile, e infine di pietra. Ma, come la goccia scava la pietra, così le lacrime lentamente scavano i cuori induriti. Si assiste così al miracolo della tristezza che conduce alla dolcezza.

Capiamo allora perché i maestri spirituali insistono sulla compunzione. San Benedetto invita ogni giorno a «confessare a Dio con lacrime e gemiti le proprie colpe passate»[4], e afferma che pregando «non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore e per la compunzione che strappa le lacrime»[5]. E se per San Giovanni Crisostomo una sola lacrima spegne un braciere di colpe[6], l’Imitazione di Cristo raccomanda: «Abbandonati alla compunzione del cuore», in quanto «per leggerezza di cuore e noncuranza dei nostri difetti spesso non ci rendiamo conto dei guai della nostra anima»[7]. La compunzione è il rimedio, perché ci riporta alla verità di noi stessi, così che la profondità del nostro essere peccatori riveli la realtà infinitamente più grande del nostro essere perdonati. Non stupisce pertanto l’affermazione di Isacco di Ninive: «Colui che dimentica la misura dei propri peccati, dimentica la misura della grazia di Dio nei suoi confronti»[8].

È vero, ogni nostra rinascita interiore scaturisce sempre dall’incontro tra la nostra miseria e la sua misericordia, passa attraverso la nostra povertà di spirito che permette allo Spirito Santo di arricchirci. Si comprendono in questa luce le forti affermazioni di tanti maestri spirituali. Pensiamo a quelle, paradossali, ancora di Sant’Isacco: «Colui che conosce i propri peccati […] è più grande di colui che con la preghiera risuscita i morti. Colui che piange un’ora su se stesso è più grande di chi serve il mondo intero con la contemplazione […]. Colui al quale è dato di conoscere se stesso è più grande di colui a cui è dato di vedere gli angeli»[9].

Fratelli, veniamo a noi e chiediamoci quanto la compunzione e le lacrime siano presenti nel nostro esame di coscienza e nella nostra preghiera. Domandiamoci se, col passare degli anni, le lacrime aumentano. Sotto questo aspetto è bene che avvenga il contrario rispetto alla vita biologica, dove, quando si cresce, si piange meno di quando si è bambini. Nella vita spirituale, invece, dove conta diventare bambini (cfr Mt 18,3), chi non piange regredisce, invecchia dentro, mentre chi raggiunge una preghiera più semplice e intima, fatta di adorazione e commozione davanti a Dio, matura. Si lega sempre meno a sé stesso e sempre più a Cristo, e diventa povero in spirito. In tal modo si sente più vicino ai poveri, i prediletti di Dio, che prima – come scrive San Francesco nel suo testamento – teneva lontani in quanto era nei peccati, ma la cui compagnia, poi, da amara diventa dolce[10]. E così chi si compunge nel cuore si sente sempre più fratello di tutti i peccatori del mondo, senza parvenza di superiorità o asprezza di giudizio, ma con desiderio di amare e riparare.

Ecco un’altra caratteristica della compunzione: la solidarietà. Un cuore docile, affrancato dallo spirito delle Beatitudini, diventa naturalmente incline a fare compunzione per gli altri: anziché adirarsi e scandalizzarsi per il male compiuto dai fratelli, piange per i loro peccati. Avviene una sorta di ribaltamento, dove la tendenza naturale a essere indulgenti con sé stessi e inflessibili con gli altri si capovolge e, per grazia di Dio, si diventa fermi con sé stessi e misericordiosi con gli altri. E il Signore cerca, specialmente tra chi è consacrato a Lui, chi pianga i peccati della Chiesa e del mondo, facendosi strumento di intercessione per tutti. Quanti testimoni eroici nella Chiesa ci indicano questa via! Pensiamo ai monaci del deserto, in Oriente e in Occidente; all’intercessione continua, fatta di gemiti e lacrime, di San Gregorio di Narek; all’offerta francescana per l’Amore non amato; a sacerdoti, come il Curato d’Ars, che vivevano di penitenza per la salvezza altrui. Non è poesia, è sacerdozio!

No a “polemica, egoismi, ambizioni, rigidità”

Cari fratelli, a noi, suoi Pastori, il Signore non chiede giudizi sprezzanti su chi non crede, ma amore e lacrime per chi è lontano. Le situazioni difficili che vediamo e viviamo, la mancanza di fede, le sofferenze che tocchiamo, a contatto con un cuore compunto non suscitano la risolutezza nella polemica, ma la perseveranza nella misericordia. Quanto abbiamo bisogno di essere liberi da durezze e recriminazioni, da egoismi e ambizioni, da rigidità e insoddisfazioni, per affidarci e affidare a Dio, trovando in Lui una pace che salva da ogni tempesta! Adoriamo, intercediamo e piangiamo per gli altri: permetteremo al Signore di compiere meraviglie. E non temiamo: Lui ci sorprenderà!

Il nostro ministero ne gioverà. Oggi, in una società secolare, corriamo il rischio di essere molto attivi e al tempo stesso di sentirci impotenti, col risultato di perdere l’entusiasmo ed essere tentati di “tirare i remi in barca”, di chiuderci nella lamentela e far prevalere la grandezza dei problemi sulla grandezza di Dio. Se ciò avviene, diventiamo amari e pungenti. Ma se invece l’amarezza e la compunzione si rivolgono, anziché al mondo, al proprio cuore, il Signore non manca di visitarci e rialzarci. Come esorta a fare l’Imitazione di Cristo: «Non portare dentro di te le faccende degli altri, non impicciarti neppure di quello che fanno le persone più in vista; piuttosto vigila sempre e in primo luogo su di te, e rivolgi il tuo ammonimento particolarmente a te stesso, prima che ad altre persone, anche care. Non rattristarti se non ricevi il favore degli uomini; quello che ti deve pesare, invece, è la constatazione di non essere del tutto e sicuramente sulla via del bene»[11].

Da ultimo, vorrei sottolineare un aspetto essenziale: la compunzione non è tanto frutto del nostro esercizio, ma è una grazia e come tale va chiesta nella preghiera. Il pentimento è dono di Dio, è frutto dell’azione dello Spirito Santo. Per facilitarne la crescita, condivido due piccoli consigli. Il primo è quello di non guardare la vita e la chiamata in una prospettiva di efficienza e di immediatezza, legata solo all’oggi e alle sue urgenze e aspettative, ma nell’insieme del passato e del futuro. Del passato, ricordando la fedeltà di Dio, facendo memoria del suo perdono, ancorandoci al suo amore; e del futuro, pensando alla meta eterna a cui siamo chiamati, al fine ultimo  della nostra esistenza. Allargare gli orizzonti aiuta a dilatare il cuore, stimola a rientrare in sé stessi con il Signore e a vivere la compunzione. Un secondo consiglio, che viene di conseguenza: riscopriamo la necessità di dedicarci a una preghiera che non sia dovuta e funzionale, ma gratuita, calma e prolungata. Torniamo all’adorazione e alla preghiera del cuore. Ripetiamo: Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore. Sentiamo la grandezza di Dio nella nostra bassezza di peccatori, per guardarci dentro e lasciarci attraversare dal suo sguardo. Riscopriremo la sapienza della Santa Madre Chiesa, che ci introduce alla preghiera con l’invocazione del povero che grida: O Dio, vieni a salvarmi.

Carissimi, torniamo infine a San Pietro e alle sue lacrime. L’altare posto sopra la sua tomba non può che farci pensare a quante volte noi, che lì ogni giorno diciamo: «Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi», deludiamo e rattristiamo Colui che ci ama al punto da fare delle nostre mani gli strumenti della sua presenza. È bene pertanto fare nostre quelle parole con cui ci prepariamo sottovoce: «Umili e pentiti accoglici, o Signore», e ancora: «Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». In tutto, fratelli, ci consola la certezza consegnataci oggi dalla Parola: il Signore, consacrato con l’unzione (cfr Lc 4,18), è venuto «a fasciare le piaghe dei cuori spezzati» (Is 61,1). Dunque, se il cuore si spezza potrà essere fasciato e guarito da Gesù. Grazie, cari sacerdoti, per il vostro cuore aperto e docile; grazie per le vostre fatiche e i vostri pianti; grazie perché portate la meraviglia della misericordia Dio ai fratelli e alle sorelle del nostro tempo. Il Signore vi consoli, vi confermi e vi ricompensi.