E’ morto Jake LaMotta, il “Toro del Bronx” che ispirò Martin Scorsese

Probabilmente in pochi, fra i più giovani, ne avranno sentito parlare dal punto di vista sportivo, se non da qualche vecchio appassionato di boxe. Molti di più potrebbero averlo conosciuto con il volto prestato da Robert De Niro alla causa di Martin Scorsese che, su di lui, girò uno dei suoi film più famosi. A ogni modo, dalle strade del Bronx al ring, la vita di Jake LaMotta di cinematografico ha avuto molto, a cominciare dall’iconicità del suo personaggio, eccessivo tanto sul quadrato quanto al di fuori di esso. Senza dubbio, però, il “Toro del Bronx” ha saputo entrare a buon diritto nell’olimpo dei grandi del pugilato, non tanto per la sua tecnica o per altre qualità di lottatore, quanto per quell’indomabilità mostrata in ogni incontro che gli fece a buon diritto guadagnare il suo soprannome. Unita, ovviamente, a quegli eccessi nella vita privata che lo portarono a cadere più volte e non solo sul tappeto del ring.

Gli inizi

Jake (all’anagrafe Giacobbe), il “Toro scatenato” della famosissima pellicola datata 1980, se ne è andato in una casa di cura della sua New York, afflitto da una polmonite anche se, almeno per il momento, non è stata ufficializzata quale sia la causa che, all’età di 96 anni, ne ha provocato la morte. Quattordici anni di carriera, 83 incontri vinti su 106 disputati, LaMotta incarnò alla perfezione il simbolo della rinascita all’indomani della Grande Depressione, emergendo dai bassifondi della Grande Mela e aprendosi a colpi di destri violenti le porte di quel mondo dorato che assaporò in tutto e per tutto, non mancando di toccare il fondo più volte. L’esordio, appena 19enne, avvenne nel 1939, quando a chiunque lo vedesse pareva di aver a che fare con una promessa della boxe mondiale: era piccolo, non molto piazzato ma dotato di uno spirito combattivo e di un’aggressività fuori del comune, formata dalla sua infanzia per le strade del Bronx dove, figlio di un immigrato siciliano, era nato e cresciuto.

Jake e Sugar Ray

La svolta arrivò nel 1942, il 22 ottobre per la precisione: con il muro di Sugar Ray Robinson dritto davanti a lui, Jake sperimenta per la prima volta la boxe ad altissimi livelli, probabilmente ignorando di avere di fronte quello che sarebbe diventato il suo acerrimo rivale. In quell’occasione prevalse Sugar ma, quello di New York fu solo il primo di una serie di match che forgiarono uno dei dualismi più accesi della storia del pugilato. LaMotta si rifece a Detroit, nel mese di febbraio, mandando k.o. Robinson (fino ad allora imbattuto), soccombendo poi con Sugar Ray di nuovo al Madison Square Garden nemmeno un mese dopo. Irruento, magari a volte scorretto, il suo ardore non ci mise molto a conquistare il pubblico di appassionati: particolarmente cruento il suo accanimento su Tony Janiro, nel 1947, addirittura epici gli scontri con il croato Fritzie Zivic, spesso al limite della correttezza sportiva.

La Motta e le cadute

Per il titolo bisognerà attendere il 1949, quando mandò al tappetto contro pronostico il francese Marcel Cerdan che, fermato da un tragico destino, non riuscirà mai a prendersi l’agognata rivincita. Da campione affronta il “gemello” italiano Tiberio Mitri, confermando nettamente la cintura dopo 8 riprese nel tutto esaurito del Madison di New York, nel luglio del 1950. Decisamente peggio andrà nel 1952, quando Sugar Ray Robinson pose una dura battuta d’arresto alla carriera di LaMotta, costringendolo al k.o. tecnico dopo 13 infernali riprese, passate alla storia come il “massacro di San Valentino”. Smise appena due anni dopo, probabilmente ancora alle prese con i postumi dei colpi del boxeur di Ailey. In mezzo, una vita fatta di eccessi,di scatti d’ira, di rapporti complicati con manager e compagne (si sposò sette volte), di ombre di combine, di tentativi infruttuosi di intraprendere la strada cinematografica, fino ad arrivare a conoscere anche il carcere. Alle spalle, però, l’icona mitica di un ragazzo del Bronx capace di aprirsi, nel bene e nel male, la strada della boxe professionistica.