Le virtù dei politici secondo don Luigi Sturzo

La differenza di base tra peccato e reato è che il primo è un concetto morale-religioso, l’altro politico-giuridico. Il peccatore deve rendere conto al suo Dio. Il reo, invece, deve rendere conto alla legge e al giudice e, in senso più ampio, alla comunità danneggiata dal suo reato. Il reato è un comportamento umano volontario che si concretizza in un’azione vietata dall’ordinamento giuridico di uno Stato, a cui è collegata una pena. Affinché un comportamento possa essere considerato un reato, non occorre solo che sia contrario alla legge. Devono infatti verificarsi diverse circostanze: la volontarietà del comportamento dell’autore del reato; la sussistenza dell’elemento psicologico, il dolo o la colpa; il nesso di causalità tra il comportamento attivo e il verificarsi dell’evento lesivo; l’insussistenza di determinate situazioni il cui verificarsi renderebbe lecito un comportamento in apparenza illecito (ad esempio la legittima difesa).

Il peccato è una violazione dei precetti religiosi. Questa la definizione che ne dà il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Il peccato è una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni. Esso ferisce la natura dell’uomo e attenta alla solidarietà umana. È un’offesa a Dio”. Perché ci sia un peccato mortale sono richieste tutte e tre queste condizioni: la materia grave, la piena avvertenza dell’intelligenza, il deliberato consenso della volontà libera da condizionamenti. La moralità è desiderio e tensione continua verso il bene che non si scandalizza della propria e altrui fragilità perché scaturisce dalla riconoscenza per l’esperienza di un amore gratuito. La missione della Chiesa non è quella di una agenzia umanitaria che distribuisce patenti di moralità, ma quella di denunciare profeticamente il male ma anche di essere evangelicamente misericordiosa con i peccatori ai quali chiedere continuamente la conversione del cuore e dei comportamenti. A questo proposito mi sembra emblematico l’atteggiamento di Gesù che ai farisei che gli avevano condotto una donna adultera dice “chi è senza peccato scagli la prima pietra” e alla donna dice “va e d’ora in poi non peccare più”.

La Chiesa chiede alle persone impegnate in politica che il loro agire sia sempre al servizio della promozione integrale della persona e del bene comune, superando il dualismo fra fede e vita. Si tratta di vivere in conformità della propria coscienza illuminata dalla fede che porta a concepire l’impegno politico come un atto di amore gratuito a servizio della comunità. Parlare di reato e peccato nella pratica politica presuppone parlare del rapporto fra legalità e moralità, fra diritto e giustizia. Il rispetto della legge è chiamato ad essere non un semplice atto formale ma un’azione personale che trova nella virtù della giustizia il suo orizzonte. Si rispetta la legge, si osserva la legalità non solo per timore della pena ma per la sete di giustizia, per la realizzazione del bene comune. Che la questione morale venga messa al centro dell’attenzione della politica italiana astrattamente è un bene in quanto mette in discussione la pregiudiziale separazione tra etica e politica, sostenuta da chi teorizza che tutte le esperienze della vita umana (politica, scienza, economia, diritto…) sono completamente autonome dalla morale.

Nella comprensione cristiana della vita il bene e il giusto sono dimensioni irrinunciabili dell’agire per cui la vita è sottoposta a criteri di ordine morale. La moralità degli uomini politici è un fatto essenziale per restituire valore ideale all’impegno politico e trasformarlo in vera e propria “carità politica”. In concreto bisogna pero chiedersi, se la “questione morale” sollevata da improvvisati Catoni non sia usata come una clava per distruggere o delegittimare i propri avversari politici e se dietro campagne moralistiche non ci nascondano ipocritamente interessi economici e strumentalizzazioni elettorali di basso profilo. L’ipocrisia – come ricordava Chesterton – è l’omaggio che il vizio rende alla virtù. La morale non si può lottizzare. Il fariseismo moralistico può reggersi sulla lottizzazione dei principi morali in base alla quale si dichiara bene solo ciò che uno mostra di poter osservare e male ciò che fanno gli altri, filtrando i moscerini e ingoiando i cammelli come dice Gesù nel Vangelo.

Il moralismo può degenerare nel fariseismo nella misura in cui è la persona a stabilire il criterio del bene e del male con il quale generalmente assolve sé stessa e condanna gli altri,dimenticando il monito evangelico di togliere prima la trave dei propri occhi prima di pretendere di togliere la pagliuzza da quelli altrui. E’ l’atteggiamento di chi pensa di avere le mani pulite, ma non si accorge di avere il cuore sporco. Don Luigi Sturzo, che fu impegnato in prima persona in campo politico come consigliere comunale e provinciale, prosindaco per 15 anni e segretario del PPI, afferma che la politica è un’arte che riescono ad esercitare solo pochi artisti, mentre altri si accontentano di esserne artigiani e molti si riducono ad essere mestieranti della politica. Egli non mancò di dare anche dei suggerimenti di natura pratica a chi vuole apprenderne l’arte ed evitarne il mestiere.

Tra le virtù dei politici egli cita la franchezza, la sincerità, la fermezza nel sapere dire anche i no, l’umiltà da cui scaturisce il senso del limite, il non attaccamento al denaro e alla fama, la competenza, la progettualità politica. Sturzo afferma l’assolutezza dei valori morali ma insiste anche sulla impoliticità della immoralità politica. Per lui l’economia e la politica, senza morale, sono sempre antieconomiche ed impolitiche.

Don Luigi Sturzo non si fermò a denunce generiche e astratte, ma intervenne spesso e puntualmente in alcuni nodi cruciali della storia del nostro paese con analisi spietate, che non mancano di attualità. Ecco cosa scrisse nel 1958 quel vecchio ottantasettenne a proposito della moralizzazione della vita pubblica: “Una parola ‘moralizzare la vita pubblica’! Dove e quando essa è stata mantenuta sulla linea della moralità? Non ieri, non oggi, non da noi, non dai nostri vicini, non dai paesi lontani. Eppure è questa l’aspirazione popolare: giustizia, onestà, mani pulite, equità. Che cosa è mai la concezione dello Stato di diritto se non quella di uno Stato nella quale la legge prende il posto dell’arbitrio; l’osservanza della legge sopprime l’abuso, la malversazione e la sopraffazione non restano impunite?…… Lo Stato non immunizza il male né lo tramuta in bene; fa subire ai cittadini gli effetti cattivi delle azioni disoneste dei propri amministratori, governanti e funzionari, mentre produce benefici effetti con la saggia politica e la onesta amministrazione…Se nella mente dei cittadini è penetrata l’idea che per avere disbrigato un affare occorre la bustarella, o la percentuale per il premuroso intermediario, si deve concludere che le storielle circolanti di bocca in bocca non siano tutte inventate. E concludeva: “Pulizia! Pulizia morale, politica e amministrativa, – solo così potranno i partiti presentarsi agli elettori in modo degno per ottenere i voti; non mai facendo valere i favori fatti a categorie e a gruppi; non mai con promesse personali di posti e promozioni; ma solo in nome degli interessi della comunità nazionale, del popolo italiano, della Patria infine, – perché la moralizzazione della vita pubblica è il miglior servizio che si possa fare alla Patria nostra” (gennaio 1958).  .

Nel giugno del 1987 Norberto Bobbio scriveva su “La Stampa” un articolo dal titolo “Corrotti ed eletti”, dove faceva notare che i partiti che avevano fatto della questione morale l’oggetto principale della campagna elettorale non erano stati affatto premiati, mentre partiti e candidati che non se ne erano affatto curati erano stati abbondantemente premiati.

Corruzione e clientelismo sono fenomeni di sempre, che si accentuano soprattutto nei momenti di grave decadenza civile e nelle fasi di trapasso sociale e culturale, ma essi hanno assunto per alcuni decenni in Italia proporzioni quantitative e caratteri qualitativi inediti. La rete di clientelismo e di corruzione si è estesa dall’ambito della vita pubblica a quello del lavoro, della professione, del commercio, fino a toccare la stessa vita privata e i rapporti interpersonali. Rispetto a questo fenomeno c’è stata la reazione da parte della magistratura e dell’opinione pubblica definita “tangentopoli”, ma pare che la corruzione non sia finita. Corruzione è una parola che fa pensare al disfacimento, alla decomposizione.

Ciò che impressiona ed allarma è lo stato diffuso di acquiescenza e di rassegnazione passiva di fronte a fenomeni gravi dal punto di vista morale. Da un lato ci si scandalizza per le manifestazioni di corruttela presenti nella classe politica, ma dall’altra si concorre ad alimentarle mediante il ricorso sistematico al clientelismo quando si tratta di affermare i propri interessi, anche a scapito di quelli degli altri.

Mancano «anticorpi» contro le condotte illecite. Oggi sono sempre più quelli che non conoscono più alcun senso di colpa e predicano che “trasgredire è bello”, salvo poi scoprire che stufa pure.

Per le posizioni più estreme del relativismo etico non c’è distinzione fra bene e male. Le ultime conseguenze di questa posizione che porta al nichilismo sono espresse da Camus: “Se a nulla si crede, se nulla ha senso e se non possiamo affermare nessun valore, tutto è possibile e nulla ha importanza. Non c’è né pro né contro, né l’assassino ha torto o ragione. Si possono attizzare i forni crematori, come anche ci si può consacrare alla cura dei lebbrosi. Malizia o virtù sono caso a capriccio”(L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2002, p.7).

Il filosofo Thomas Hobbes scriveva: “Prima dei patti e delle leggi, non c’era né giustizia, né ingiustizia; e la natura del bene e del male non era negli uomini più comune che nelle bestie” (De Homine c.10) e “Le regole del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto sono delle leggi vivili; e così ciò che il legislatore prescrive deve essere considerato come bene; ciò che proibisce deve essere considerato come male” (Leviathan c.29).

Nel 1764, nell’opera “Dei delitti e delle pene”, il giurista e filosofo milanese Cesare Beccaria sulla scia del pensiero precursore di Thomas Hobbes (che già un secolo prima dichiarava che “se i reati son peccati… non tutti i peccati son reati”!), introdusse la distinzione tra “peccato” e “reato”

– mentre il “reato” consisterebbe in un danno arrecato all’intera collettività, tale per cui il responsabile di tale atto meriterebbe di essere giudicato dalla Società nei modi e nelle forme dagli stessi stabiliti;

il “peccato”, invece, non sarebbe altro che un’offesa arrecata a Dio, ragion per cui il suo autore meriterebbe (almeno per chi è credente) di essere giudicato (punito o perdonato) solo da Dio e dai suoi rappresentanti.

L’ordine giuridico non coincide puramente e semplicemente con l’ordine morale. Il dominio del diritto non copre tutto il dominio della morale. L’ordine giuridico concerne soprattutto l’aspetto oggettivo, materiale. L’ordine morale considera principalmente l’intenzione e il fine di chi agisce senza trascurare l’atto esterno.