Lotta alla mafia, quando la scorta non è uno status symbol

Lo scricchiolio delle scarpe di uno sconosciuto dietro di te, occhi puntati sulla tua schiena che ti fanno rabbrividire… Non è l'inizio di un film horror, ma le crude sensazioni che si provano quando si è consapevoli di essere nel mirino di un clan mafioso. Valeria Grasso è la protagonista di questa storia e, insieme a lei, la sua famiglia che ha dovuto seguirla in periodi che si potrebbero, a ragion veduta, definire oscuri.

Come tutto ebbe inizio

La storia di Valeria inizia nel quartiere San Lorenzo di Palermo, dove aveva preso in affitto un locale – con l'intenzione di trasformarlo in una palestra – dalla signora Mariangela Di Trapani, moglie di Nino Madonia. Un giorno, senza preavviso, un rappresentante del Tribunale le fa sapere che i locali risultano sequestrati e l'affitto, d'ora in poi, andrà pagato direttamente al custode giudiziario. Scoprirà in seguito che quel luogo apparteneva al clan dei Madonia, che mandano un loro “esattore” a chiederle un “canone di locazione”: un termine usato abitualmente in materia di affitti e locazioni, ma che in realtà celava malamente l'intenzione di estorcerle il “pizzo“. Valeria, invece di perdersi d'animo, raccoglie a piene mani il coraggio e si reca in una caserma dei Carabinieri per sporgere denuncia. Dopo qualche mese di indagine quattro esponenti del clan, tra cui Salvatore Lo Cricchio, uomo di fiducia di Lady Mafia, come veniva chiamata Mariangela Madonia, e Rosario Pedone, l'esattore. E' in questo momento che inizia il calvario di Valeria e della sua famiglia. Croci nere disegnate sul muro della palestra, cavi della luce tranciati, ladri che entrano in casa sua e rubano solamente un quadretto con la foto dei suoi figli. Minacce che la portano a vivere in un perenne stato di ansia e paura, fino a quando si presentano i carabinieri alla sua porta: in due ore dovrà lasciare la sua casa, insieme ai suoi bambini. La destinazione? Un'altra città, lontana dalla sua Sicilia e da quel clan mafioso che la vuole morta, dove iniziare una vita. 

La scorta

Dopo due anni di vita da fantasmi, come la definisce Valeria, decide di chiedere di uscire dal programma di protezione e torna nella sua Palermo. Ma a dispetto del tempo trascorso, nulla sembra essere cambiato. In quanto testimone di giustizia, le viene assegnata una scorta con il IV livello di rischio. Protezione che le viene revocata, come lei ha dichiarato, con una comunicazione verbale fatta dal comandante del nucleo Scorte, colonnello Luca Nuzzo, lo scorso 20 novembre. Il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, in merito alla vicenda dell'imprenditrice palermitana ha dichiarato che la “scorta è stata revocata a Roma e a livello nazionale ma è stata mantenuta in Sicilia dopo una valutazione dei rischi fatta dalle forze di polizia”. Il ministro ha spiegato che quando si revoca una scorta “c'è sempre una valutazione dei rischi fatta delle forze di polizia”. Il Ministro ha inoltre sollecitato il prefetto di Roma affinché ricevesse Valeria affinché potesse “esporre gli eventuali elementi a sua disposizione per consentire alle forze di polizia di valutare i rischi”. Il 26 novembre, l'imprenditrice palermitana è stata ricevuta dal prefetto di Roma, Gerarda Pantaleone. Al termine dell'incontro, In Terris ha intervistato Valeria Grasso.

Come è andato l'incontro con il prefetto?
“Il prefetto mi ha convocato d'urgenza dopo la segnalazione fatta dal ministro Lamorgese, ci siamo incontrate e mi ha assicurato, sulla base di alcune informazioni che le ho dato io, che il mio caso sarà attenzionato e a brevissimo riporterà la mia situazione alla prossima riunione della Commissione sulla sicurezza che dovrebbe tenersi giovedì o venerdì. Speriamo che in qualche maniera tornino sulla loro decisione”. 

La sua è una storia forte, ce la può raccontare?
“Io sono una donna siciliana che diversi anni fa ha denunciato il clan Madonia. Ho testimoniato e collaborato con i magistrati e le forze dell'ordine, questo ha portato all'arresto di alcuni esponenti del clan mafioso. Dopo poco tempo, sono iniziate ad arrivare le minacce, sempre più gravi, tanto che siamo stati portati in una località segreta dove ho vissuto fino a quattro anni fa. Poi abbiamo chiesto di uscire dal programma di località segreta perché la vita era diventata impossibile. Io ho tre figli che all'epoca erano in piena età adolescenziale. Ho chiesto prima di ritornare in Sicilia, ma poi ho scelto un'altra città al di fuori della regione, pensando che così saremmo stati un po' più tranquilli e siamo venuti a vivere a Roma. Ho cercato di iniziare a fare una vita normale, anche se adesso con il mio lavoro al Ministero della Salute mi occupo di beni confiscati, dipendenze, ludopatia, incontro i giovani”. 

Come è cambiata la sua vita dopo la denuncia al clan mafioso?
“E' diventata una vita che non è più vita, blindata: senza spensieratezza. Vivi con la preoccupazione di chi hai accanto. Ma è comunque la vita di una persona libera, con dei figli che, mano a mano che crescono, apprezzano la scelta fatta come famiglia, anche se il prezzo che è stato pagato è altissimo. A soffrirne di più sono stati sicuramente i miei figli, nel periodo delle denunce erano solo dei ragazzi, però oggi i miei figli sono orgogliosi di quello che abbiamo fatto”. 

Lei mi ha detto che avete vissuto in una casa protetta. Come è stato quel periodo? Perchè ha scelto di tornare a una vita normale?
“Terribile, perché non è possibile vivere come fantasmi. Tornare a una vita normale è quello che desideravamo di più. Volevamo solo frequentare liberamente quelli che erano i compagni di scuola e le loro mamme. Ed invece dovevamo stare sempre attenti che qualcuno non ci riconoscesse. Non è una vita comune per una famiglia normale. Finché lo fa un uomo che magari ha vissuto in ambienti criminali, poi decide di cambiare vita ed entrare in un programma di protezione, magari può anche stare bene. Una donna o un uomo libero che hanno la sfortuna nella loro vita o per il loro lavoro di trovarsi a doversi ribellare alla mafia dietro richiesta estorsiva, comprende bene che si finisce in un mondo oscuro e tenebroso e che lo si scopre mano a mano che lo si vive”.

I suoi figli, quando avete fatto questa scelta di denunciare, essendo in piena età adolescenziale, forse non hanno immediatamente compreso la portata della situazione…
“No, i miei figli lo stanno comprendendo adesso che sono più grandi. Ho spiegato loro la situazione, poi al telegiornale ogni volta che si parla del clan Madonia esce anche la mia foto e spiegano che sono l'unica donna che si è ribellata e che li ha denunciati. Più escono le inchieste, più i miei figli crescendo, riescono a capire. Non mi hanno mai detto: 'Mamma, ma chi te lo ha fatto fare'. Anzi. Si arrabbiano quando vedono che lo Stato ci mette in pericolo come in questo caso”. 

Secondo lei, perché le è stata revocata la scorta?
“Per un motivo prettamente burocratico. Le scorte vanno tenute fino a un certo punto salvo nuovi episodi di pericolo. Perché purtroppo per lo Stato siamo un costo. La mafia e la camorra non dimenticano. Così, come tu la tua condanna a morte ce l'hai per la vita, così dovrebbe funzionare per lo Stato che dovrebbe proteggerti per la vita. Una vita non può avere una scadenza, non può essere un foglio di carta con un timbro: se dopo sei mesi non hai avuto minacce ti tolgono la scorta, poi la ridanno, poi abbassano il livello di protezione, poi lo rialzano. Ma di cosa stiamo parlando?”. 

Si sente tradita dallo Stato?
“No, tradita no. Sono delusa e preoccupata. Purtroppo lo Stato troppo spesso commette errori. Ha perso uomini e donne importanti per questo”. 

Che tipo di minacce ha ricevuto? Hanno minacciato anche la sua famiglia?
“Sì. L'anno scorso, all'inizio dell'estate, nel locale del mio compagno, dove è mia abitudine andare a cenare al tavolo dove io adoro sedermi, che è sovrastato da un albero, mi hanno fatto trovare un sacchetto annodato a un ramo con un doppio nodo, all'interno un piccione morto. Nel linguaggio tipicamente mafioso siciliano è una promessa di morte. Non soltanto il messaggio, ma anche la consapevolezza che sanno dove mi trovo. Ma non solo le minacce. A volte basta essere seguiti in un negozio, dove per tutto il tempo che sei all'interno, c'è un uomo che ti guarda, che prende il telefono, vedi esattamente che ti sta guardando e che non fa nulla per nasconderlo. Determinate cose raccontate possono far pensare che una persona sia esagerata o visionaria, però chi ha avuto la sfortuna di incrociare lo sguardo dei criminali, quello sguardo non lo dimentica, ma lo riconosce se si riprensenta nella vita”. 

Rifarebbe quello che ha fatto?
“Assolutamente sì. Però adesso mi batto, non sto zitta. Questa situazione la voglio risolvere, ma soprattutto risolvendo la mia situazione evito che altri la subiscano. Devono stare attenti a fare questi passi”.

Avendole vissute sulla sua pelle, le conosce le paure di chi si trova nelle sua medesima situazione. Vorrebbe dire loro qualcosa?
“In questo momento no, non mi sento di dire niente agli altri. Posso solo dire che non bisogna stare in silenzio, bisogna battersi per i propri diritti e soprattutto per proteggere le proprie famiglie”. 

E allo Stato e alle istituzioni vorrebbe dire qualcosa?
“Di essere più responsabili in certe situazioni”.