C.S. Lewis, dalla terra delle ombre alla luce della conversione

Interris.it a colloquio con Paolo Gulisano, autore del libro "C.S. Lewis - Nella terra delle ombre": "Occorre guardare la realtà con gli occhi dei bambini: cercando, facendo domande"

Paolo Gulisano C.S. Lewis
Foto: Paolo Gulisano

Sarebbe un errore pensare alla teologia come all’unico modo per veicolare il messaggio del Vangelo. E, in generale, a descrivere la condizione essenziale dell’essere cristiani. Se la letteratura può arrivare al cuore dell’uomo, è giusto – e forse necessario – che sia anch’essa strumento di diffusione di valori cardine. Quelli propri della moralità dell’uomo, certo, ma anche quelli cristiani. Clive Staples Lewis sperimentò su di sé il cammino della conversione. E guadagnando, con questo, la capacità di osservare il mondo con occhi nuovi. Nella consapevolezza, chiara, di come la condizione gioiosa del cristiano richieda una coscienza sull’esistenza del male. E di come sia necessario impegnarsi, nel quotidiano, per contrastarlo. Non solo epica o allegorie: la letteratura ci chiama in causa in quanto vita. Interris.it ne ha parlato con il professor Paolo Gulisano, medico e scrittore, autore del volume “C.S. Lewis – Nella terra delle ombre” (Edizioni Ares).

 

Professore, se si parla di Lewis viene inevitabilmente in mente Narnia, mondo che costituisce un avvicinamento alla beatitudine della Terra di Aslan. Da dove nasce il concetto di “terra delle ombre”?
“La terra delle ombre è il termine usato a Narnia per descrivere il nostro mondo. Essa è un mondo parallelo, nel quale la divinità è incarnata dal leone che simboleggia Cristo. Ma lì sanno benissimo dell’esistenza della nostra terra. È vero che Narnia è una terra beata, nonostante vi sia anche la presenza di un male che tenta di distruggere quanto creato, ma è consapevole dell’esistenza del nostro mondo, di questa ‘terra delle ombre’, chiamata così perché noi, come diceva san Paolo, vediamo in trasparenza, in ombra, mentre a Narnia tutto è manifesto. Questo sottotitolo riprende quindi il nome della nostra terra, perché Lewis ha vissuto qui ed è qui che ha tentato di fare un po’ di luce attraverso le sue opere”.

Una missione vera e propria, assunta però a seguito di un evento importante…
“Un compito che aveva assunto dopo la sua conversione, avvenuta, per lui che si definiva un ‘militante ateo’, grazie a John Tolkien, suo grande amico e credente. Fino a quel momento, Lewis era un giovane professore di Oxford, con una produzione quasi esclusivamente scientifica. Da quel momento passò a una produzione apologetica, per dare le ragioni di quella fede che aveva incontrato. Tutta la sua vita si è dispiegata in questa terra di ombre, che ha bisogno di quella luce di verità che Lewis ha cercato di diffondere con le sue opere”.

In sostanza, il concetto di “terra delle ombre” non si riferisce solo al ciclo di romanzi più famoso di Lewis ma al suo cambiamento, parte di un percorso spirituale ancor prima che letterario.
“Certo. Tra l’altro, c’è l’idea di vedere le cose da un altro punto di vista. È vero che la terra delle ombre siamo noi ma come siamo visti da Narnia? Prima di questo ciclo di epica fantasy, negli anni Trenta, subito dopo la sua conversione, Lewis scrisse anche una trilogia di fantascienza, il cui primo volume si chiamava ‘Lontano dal pianeta silenzioso’. Un’altra espressione che descrive la Terra, in questo caso come viene vista da Marte. L’incontro con i marziani mostra delle creature più sagge, in qualche modo più vicine alla verità, che fanno notare ai terrestri il fatto che essi vivano in un pianeta silenzioso, che non parla. Proprio perché contaminato dal male”.

Il tema di un male incombente è ricorrente nella letteratura. In questo caso è anche un richiamo alla condizione dell’uomo?
“Questa presenza incombente Lewis la ebbe sempre chiara. Anche se, da una parte, in lui c’era una grande gioia, peraltro manifestata da un’autobiografia intitolata ‘Sorpreso dalla gioia’. Con la conversione scoprì che il cristianesimo è anche questo. Lui era nato in Irlanda del Nord, in una comunità protestante di orientamento calvinista, dove la fede era vista quasi esclusivamente come delle regole da rispettare. Quando tornò a casa dalla Prima guerra mondiale, nella quale era stato ferito, lesse ‘Ortodossia’ di Chesterton, nel quale si diceva che lo straordinario segreto del cristianesimo è la gioia. Lewis ne rimase molto colpito ma riuscì a capirlo solamente grazie all’incontro con Tolkien. Tutta la vita e anche l’opera ha questi due poli: da un lato il cristianesimo come gioia, dall’altro la forte presenza del male, davanti al quale non ci si deve arrendere ma, piuttosto, combattere”.

Un passaggio che, nel Lewis convertito, emerge anche in altre opere…
“In quello che è stato forse il suo libro più famoso, scritto subito dopo la conversione, ossia ‘Le lettere di Berlicche’, tradotto in italiano già negli anni ’40. E letto peraltro da un futuro santo, Giovanni Calabria, sacerdote veronese e apostolo della carità, che iniziò un epistolario con Lewis, scrivendo in latino perché non conoscevano le rispettive lingue. Anche ‘Le lettere di Berlicche’ si presenta come un epistolario, in cui un potente diavolo scrive delle lettere di consiglio a suo nipote, dando indicazioni su come meglio tentare, corrompere il ‘paziente’ che gli è affidato, nell’idea che, assieme a un angelo custode, vi sia anche un diavolo tentatore. Questi scritti fanno pensare, perché Lewis cerca di entrare nella mentalità del male, capire come agisce e quali strumenti utilizza per rovinare le nostre anime. Già allora, aveva ben chiaro che il cristianesimo è gioia ma è anche lotta contro il male”.

Anche una delle Operette morali utilizza un espediente simile. Peraltro Lewis, come Tolkien, combattendo in guerra vide con i suoi occhi la natura del male. Questo “incontro” è la condizione per capire come occorre combatterlo?
“Bisogna affrontarlo, non ignorarlo. Conoscere come agisce. Potremmo dire che ‘Le lettere di Berlicche’ è una sorta di manuale, una contromisura, un antidoto all’azione del male. Conoscerlo non vuol dire perdere l’innocenza. Le Cronache di Narnia è un invito a tornare bambini. C’è una frase bellissima, detta da un personaggio: ‘Ci fu un tempo in cui facevi domande perché cercavi risposte. Torna bambino, chiedi ancora’. Lewis ci invita ad avere gli occhi di bambino con cui guardare la realtà. E questo nonostante scrisse questi racconti in età già matura, non avendo peraltro avuto figli. È in fondo il bambino rimasto in lui a parlare. La condizione del bambino è quella di chi cerca, di chi chiede. Sembra quasi una parafrasi del Vangelo: la condizione per entrare nel Regno dei Cieli è quella di tornare bambini, ossia nella condizione di coloro che cercano la verità”.

Di recente, Papa Francesco ha citato la lettera 43 di Tolkien. Segno evidente di come la letteratura possa essere veicolo del messaggio cristiano. Lei quale obiettivo si era posto esplorando Lewis?
“Credo che in questi tempi, in cui viviamo nelle ombre e nella confusione, ci sono autori che anche attraverso la narrativa comunicano la bellezza della fede. Ritengo ci sia un altro modo, oltre alla saggistica e alla teologia, e sia Tolkien che Lewis, ma anche Chesterton, rientrano in questa categoria. Attraverso la narrativa, comunicare la fede e grandi valori. Uno dei figli di Tolkien, Michael, disse che suo padre aveva risposto all’invocazione di lettori di ogni età e carattere, ‘stanchi e nauseati dai valori di accatto, spacciati loro come tristi sostituti della bellezza, del senso del mistero, dell’avventura, dell’eroismo’. Cose senza le quali l’anima dell’uomo inaridisce. Questa letteratura fa riaccendere nel lettore il desiderio di cose belle. Senza dimenticare che gli eroi di Lewis e Tolkien non sono ‘super’ ma dei piccoli”.

A questo proposito, ne “L’ultima battaglia”, che chiude il ciclo di Narnia, due personaggi decidono di sostituirsi ad Aslan, spacciandosi per lui e assoggettando in tal modo gli altri. Sembra quasi un monito precursore dei nostri tempi, in cui la sovrabbondanza di contenuti rende difficile l’elaborazione di un proprio pensiero e più facile una fiducia sbagliata…
“Sono d’accordo. Lewis, nel ciclo di Narnia, chiude con il giudizio finale. E ci sono queste due figure della scimmia e dell’asino che sono parodie quasi al limite dell’anticristo. Un rovesciamento, uno spostamento. In inglese, il nome dell’asino è Shift, ‘spostare’ l’attenzione su altro. Noi, che viviamo questo tempo di rovesciamento dei valori, dobbiamo tornare a cercare la verità. Lewis riuscì a farlo con il cristianesimo autentico, anche se la sua fede venne messa alla prova dall’esperienza del dolore, portato dalla morte della moglie. In proposito, ha lasciato ‘Diario di un dolore’, teologia scritta con la penna intinta nelle lacrime. Possiamo dire che Lewis è stato un autore cristiano a tutto tondo, affrontando tanti aspetti della condizione umana, ossia di chi cerca risposte alle proprie domande”.