Casula: “John F. Kennedy, figura di novità e speranza

A sessant’anni dall’assassinio del presidente degli Stati Uniti, l’intervista di Interris.it allo storico Carlo Felice Casula

A destra nell'immagine: Foto di History in HD su Unsplash. A sinistra: professor Carlo Felice Casula (per gentile concessione)

L’Occidente, dopo l’abisso di due guerre mondiali e due totalitarismi nel suo “campo” – nell’altro c’era l’Unione sovietica – viveva un periodo di libertà e democrazia, sviluppo e prosperità, ed era fiducioso sulla rampa di lancio del futuro. Nel 1963 questo clima ottimista venne offuscato dall’assassinio dell’allora presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy.

I discorsi

JFK, una sigla con cui era conosciuto, ha personificato la stagione del cambiamento. Kennedy è passato alla cronaca, alla storia e al mito anche grazie ai suoi discorsi, alla sua retorica, al suo messaggio. Negli anni seguenti ha continuato a essere fonte d’ispirazione di leader politici sparsi in tutto il mondo. Alcune sue espressioni sono molto citate, o parafrasate, ancora oggi, quali “Ich bin ein Berliner” e “non chiederti cosa può fare per te il tuo Paese, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”.

22 novembre 1963

La vita di colui che nella sua concisa presidenza ha indicato non solo agli statunitensi ma a tutti i cittadini di questa parte del mondo la nuova frontiera, le sfide e le speranze, è stata spezzata a Dallas, nel Texas, il 22 novembre di sessant’anni fa. Lo stesso anno in cui moriva papa Giovanni XXIII e veniva pubblicata l’enciclica “Pacem in Terris”.

L’intervista

Nel sessantesimo anniversario dell’assassinio del presidente degli Stati Uniti, l’intervista di Interris.it a Carlo Felice Casula, professore emerito di Storia contemporanea all’Università degli Studi Roma Tre.

Cos’ha rappresentato JFK per il mondo?

“Kennedy appariva alla pubblica opinione come un fatto nuovo, un elemento di speranza, anche se più sul piano internazionale che ‘domestico’ – lo scarto con il concorrente repubblicano alla Casa bianca Richard Nixon è stato molto stretto. Oltretutto è sempre stato in grado di non apparire come un ‘uomo di palazzo’, anche in virtù del fatto che la sua elezione infranse un tabù: ruppe la lunga tradizione di presidenti Usa bianchi, anglosassoni e protestanti, poiché era irlandese e cattolico. La sua è stata una personalità emblematica e rappresentativa del secondo dopoguerra in cui comparivano categorie come l’ottimismo e il progresso”.

Ci può fare qualche esempio dell’ottimismo e del progresso “kennedyani”?

“I circa mille giorni della sua presidenza ebbero luogo in un periodo in cui l’idea di un nuovo conflitto mondiale sembrava superata e il rischio di escalation tra Usa e Urss, si veda la crisi dei missili di Cuba del 1962, venne risolta guardando al futuro, e non al passato, agli anni Cinquanta che erano stati quelli più difficili della Guerra fredda. L’ottimismo ritorna, unendosi all’altra categoria citata, quella del progresso, nella proposta dell’Alleanza per il progresso con l’America latina. La cosa ebbe in realtà rilievo soprattutto a livello propagandistico, ma comunque gli Usa fecero il passo avanti di non considerare più il Sud America come il ‘cortile’ di casa loro bensì un continente da coinvolgere in una prospettiva. La categoria del progresso era presente nel clima degli anni Sessanta, come si evince sia dalla presidenza Kennedy che per esempio dall’enciclica sociale ‘Populorum Progressio’ di Paolo VI. La sua idea di progresso consisteva nell’immaginare che lo sviluppo economico avrebbe coinvolto l’intero continente europeo”.

Quali risultati ha raggiunto e quali no nel corso della sua amministrazione?

“A livello interno puntò sul sostegno alle fasce più povere sia agendo sul welfare che sulla retribuzione, per ampliare i diritti sociali e ridurre la disoccupazione. Propose l’aumento dei sussidi ai pensionati e introdusse il salario minimo. Si dimostrò meno coraggioso sui diritti civili e l’emancipazione della popolazione afroamericana, che lo appoggiava, timoroso delle dinamiche interne al suo partito dove le componenti democratiche negli Stati del Sud erano ancora connotate da forme di discriminazione e da una scarsa disponibilità al concedere il pieno ottenimento dei diritti agli afroamericani. Ottenne risultati positivi per la ripresa economica statunitense – un settore trainante fu l’industria bellica -, che comportava e implicava un aumento dei consumi interni a cui affiancò la riduzione dei dazi doganali per l’importazione di prodotti dall’estero, convinto che crescita e sviluppo fossero fattori di stabilità globale.  A livello internazionale scelse la strada del confronto e del disgelo con l’Urss, basti pensare all’importante incontro con il leader sovietico Nikita Krusciov al summit di Vienna nel 1961, e investì 20 miliardi di dollari nelle relazioni con i Paesi sudamericani. Sulla guerra in Vietnam, inviò uomini per addestrare l’esercito del Sud ma secondo diverse fonti cominciò a provare forti dubbi in merito a quel conflitto”.

È stato un presidente famoso per i suoi discorsi. Qual era il “segreto” della sua retorica?

“Kennedy aveva molti elementi di modernità. Innanzitutto si attorniò di una squadra di straordinari collaboratori, tra cui il comunicatore Arthur Schlesinger. Sapeva poi parlare con il corpo, andando anche oltre la gestualità, in modo da apparire un uomo giovane e nel pieno delle forze – nonostante soffrisse di vari problemi di salute. Inoltre, ha saputo utilizzare i mass media tradizionali, come la carta stampata e la radio, sia quello più nuovo per l’epoca, la televisione. Il suo uso del mezzo televisivo ha rilanciato in una nuova chiave i discorsi radiofonici che portarono tanto consenso a uno dei suoi predecessori, Franklin Delano Roosevelt”.

Professore, lei prima ha citato la Guerra fredda. Come si evitò lo scoppio di un terzo conflitto mondiale, oltretutto nell’era atomica?

“Infatti il rischio di uno scontro tra le due grandi potenze, Usa e Urss, era proprio quello che deflagrasse una guerra atomica. L’approccio di Kennedy era quello di andare incontro al suo avversario e di provare a raggiungere con lui un’intesa e proprio sotto la sua amministrazione ci fu un primo – timido – passo in avanti sul divieto di esperimenti nucleari in superficie e in aria”.

Un momento critico è stata la crisi di Cuba del 1962. Ci si fermò prima del punto di non ritorno anche grazie all’opera di mediazione della Santa Sede – giusto l’anno dopo, nel 1963, venne pubblicata l’enciclica “Pacem in Terris”? 

“I documenti del pontificato di papa Giovanni XXIII non sono ancora a disposizione degli studiosi, ma è ormai acclarato che ci furono un lavorio della Santa Sede e un intervento del Papa. La soluzione di una crisi di quella gravità fu la dimostrazione che era possibile raggiungere un’intesa tra le due forze in campo senza che l’una covasse dei sospetti nei confronti dell’altra”,

Quale effetto ebbe la sua morte?

“Fece impressione perché mostrò che anche il presidente più forte e protetto del mondo veniva ucciso senza che poi si chiarissero né il ‘perché’ né il ‘per conto di chi’. Una sensazione accresciuta dal fatto che pochi anni dopo, nel 1968, venne ucciso il fratello Robert, che era stato centrale nella sua amministrazione. La vicenda tragica, rilanciata da libri e film come ‘JFK’ di Oliver Stone del 1991 (in Italia ‘JFK – Un caso ancora aperto’, ndr), ha via via oscurato la sua breve presidenza”.