Ecco perché 89 ragazzi con disabilità complessa rischiano il trasferimento in istituti socio-sanitari

In seguito alla delibera 983 del 2023, 89 ragazzi con sindrome dello spettro autistico e disabilità complessa, rischiano il trasferimento in istituti socio-sanitari. L'intervista di Interris.it a Barbara Guidi, assistente sociale e responsabile tecnica di Oikos - Una Casa Per Vivere

Barbara Guidi - Oikos
A sinistra Barbara Guidi. A destra i ragazzi durante un'attività esterna. Foto: Oikos - Una Casa per Vivre

Sono ottantanove i ragazzi con sindrome dello spettro autistico e disabilità complessa, che ad oggi vivono in strutture residenziali socio-assistenziali, o che frequentano in centri diurni, che, entro giugno prossimo, rischiano di essere trasferiti in istituti socio-sanitari. È quanto è stato deciso dalla delibera 983 del 28 dicembre 2023 della Regione Lazio e che ha lasciato perplessi operatori del settore e le famiglie di questi ragazzi. Si teme infatti, che in questo modo possa essere minato il cuore del messaggio della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che riconosce il loro diritto a vivere nella società con la stessa libertà di scelta di tutte le altre, e che diventino dei veri e propri pazienti, e che possano perdere le capacità e i diritti che hanno acquisito negli anni.

L’intervista

Interris.it ne ha parlato con Barbara Guidi, assistente sociale e responsabile tecnica di Oikos – Una Casa Per Vivere, associazione che gestisce tre case-famiglia socio-assistenziali per disabili adulti sul territorio del XV Municipio di Roma Capitale. L’equipe multidisciplinare si occupa dell’assistenza quotidiana degli utenti, attraverso interventi educativi che prevedono un rapporto operatore-utente per lavorare con efficienza sul singolo.

Barbara, ad oggi come vivono questi 89 ragazzi?

“Queste persone sono ben inserite in strutture socio-assistenziali, ovvero piccole case famiglia, gestite come dei nuclei familiari con al centro un accompagnamento non sanitario. Qualora invece abbiano bisogno di una figura medica, all’occorrenza vengono accompagnati dal proprio medico di base o in strutture sanitarie di riferimento per incontrare dei professionisti. Ognuno ha un problema comportamentale diverso l’uno dall’altro e per questo motivo seguono dei percorsi e svolgono attività differenti che prevedono anche l’uscita dalla struttura perché crediamo sia fondamentale l’integrazione con il mondo esterno”.

Proponete attività per responsabilizzarli?

“Innanzitutto, trattandosi di una vera e propria casa sono invitati ad occuparsi degli spazi e della quotidianità, come per esempio dell’organizzazione della cucina e della sistemazione delle camere. Durante il giorno escono per attività sportive, oppure laboratoriali, come per il laboratorio di falegnameria, oppure quello di ciclofficina in cui imparano a ripristinare le biciclette usurate. Abbiamo poi un laboratorio in cui viene insegnata la lavorazione dell’orto, attività fondamentale in quanto permette loro di lavorare all’aria aperta e di comprendere e rispettare i cicli della natura”.

La delibera della Regione Lazio che cosa cambierebbe nella vita di queste persone?

“Ci porta indietro di sessant’anni, quando le persone con qualsiasi tipo di disabilità venivano considerate dei pazienti da curare e non come delle persone con delle necessità e dei sentimenti da ascoltare e da rispettare. La maggior parte delle 89 persone individuate vivono nelle nostre case famiglia da parecchi anni e fin dall’inizio sono state seguite per rendere leggero il passaggio dalle loro famiglie al centro. È stato un percorso non semplice, ma che ha portato a dei risultati importanti, che però con questa delibera andrebbero tutti persi”.

Quali potrebbero essere i primi disagi, dovuti a questo cambiamento?

“Stiamo parlando di persone con dei problemi comportamentali anche gravi che hanno bisogno di una stabilità. Spostarli in un ambiente totalmente diverso da quello in cui vivono ora, significherebbe innanzitutto sradicarli in malo modo dalla loro quotidianità. Questo mutamento avrebbe dei risvolti negativi anche emotivi importanti che porterebbero a una chiusura in se stessi e la successiva perdita di buona parte del grado di autonomia raggiunto grazie al lavoro e agli sforzi di questi anni”.

Quanto questo peserebbe sulla loro autostima?

“Parecchio perché, soprattutto coloro che hanno delle capacità cognitive maggiori, rischierebbero di sentirsi degli ammalati e come tali di non essere più in grado di poter svolgere determinate attività. Sicuramente questa sensazione modificherebbe il loro comportamento e la sessa percezione di se stessi”.

I familiari come stanno vivendo questa decisione?

“Sono basiti e allo stesso tempo spaventati per una possibilità che inquieta. Per una famiglia non è mai facile accettare di staccarsi dal proprio caro, ma quando poi si rendono conto che da noi viene trattato e seguito con cura nell’ottica di una progressiva e duratura crescita, comprendono di avere fatto la scelta giusta. Ora invece, viene chiesto loro di accettare di vedere il proprio familiare diventare un paziente qualunque da curare e non una persona con delle potenzialità da far emergere. Si tratta di un boccone amaro da digerire e che nessuno mai vorrebbe trovare servito sul proprio piatto”.