La gravità dell’inverno demografico che attanaglia l’Italia

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Le culle vuote, la diminuzione dei residenti e l’invecchiamento della popolazione sono trend che incidono sempre di più sull’assetto demografico dell’Italia. Dati talmente consolidati nel tempo che rischierebbero di non fare nemmeno notizia se non fosse per il superamento di altre due soglie psicologiche: siamo scesi sotto i 59 milioni di residenti e, per la prima volta dall’unità d’Italia, sotto le 400mila nascite annuali.

Il censimento Istat 2022, pubblicato questo lunedì, certifica infatti che la popolazione residente nella penisola al 31 dicembre dello scorso anno è di 58.997.201 persone e che nel 2022 sono nati 393.333 bambini, circa 7.000 in meno rispetto al 2021. Per rendersi conto della gravità con cui procede questo inverno demografico basta dire che nel 2008 venivano al mondo nel nostro Paese oltre 576mila bambini, quindi in appena 14 anni si è registrato un calo di circa il 32% delle nascite.

Per spiegare il fenomeno va detto che ogni anno ci sono sempre meno donne in età fertile, ovvero quelle che secondo gli studi di statistica e sociologia vanno dai 15 ai 49 anni, questo perché le donne in questa fascia di età già scontano un calo delle nascite avvenuto nella loro generazione. In altre parole l’invecchiamento della popolazione e il calo demografico partono dalla fine degli anni Settanta e ora affiorano tutte le conseguenze in maniera ancora più drammatica. Va inoltre considerato un altro elemento che getta maggiori ombre per il futuro ed è il calo del tasso di fecondità delle donne, cioè il numero medio di figli per donna che nel 2022 si attesta a 1,24, nel 2021 era del 1,25 e solo nel 2010 si registravano 1,46 figli per donna. Il tasso di sostituzione fissato al 2,1 è stato raggiunto l’ultima volta nel 1976.

Altri numeri significativi sono la crescita dell’età media che si attesta a 46,4 anni, in pratica per ogni bambino sotto i sei anni ci sono 5,6 anziani; la suddivisione per sessi, le femmine sono il 51,2% della popolazione i maschi il 48,8%; e che gli stranieri sono circa 5.141.341 di cittadini abitualmente dimoranti in Italia al 31 dicembre 2022, l’incidenza sulla popolazione residente è pari all’8,7% (nel 2021 era dell’8,5%). Emerge pertanto che il leggero aumento della quota degli stranieri non riesce a compensare il calo totale della popolazione. Anche le donne stranire tendono ad assumere gli stili di vita occidentali, si vede un crollo della fecondità anche tra questa categoria, infatti nel 2008 il numero medio di figli delle donne emigrate era 2,53, ora è a 1,87.

Ad un’attenta lettura, i numeri suggeriscono che ci sono motivi economici ma anche culturali, come dimostra il fatto che anche gli stranieri una volta giunti in Italia danno forma a strutture famigliari molto più ristrette rispetto quelle dei lori Paesi d’origine. I demografi hanno più volte avvertito che questo trend farà saltare il sistema pensionistico, la sanità pubblica e l’intero welfare italiano, dal momento che una piccola percentuale di popolazione attiva dovrà sostenere milioni di anziani fuori dal mercato del lavoro. Lo statistico già presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo stima che solo gli ultra novantenni tra trent’anni saranno oltre 2,5 milioni. Ma non si tratta solo di fredde previsioni economiche, meno figli significa meno apertura alla vita, meno speranza, meno energia e capacità di rigenerazione. In poche parole significa che un popolo si ripiega su sé stesso, sull’individualismo e sul nichilismo dei bisogni immediati senza una prospettiva per il futuro.

Ricette semplici non esistono per invertire questo fenomeno epocale. Va ripensato tutto il welfare famigliare, le giovani coppie vanno aiutate nel diritto al lavoro e alla casa. I giovani devono uscire prima dalle università e con un inserimento certo nel mondo del lavoro. I servizi per l’infanzia vanno rafforzati (asili, sport, sostegno scolastico…) per consentire un più sereno ritorno al lavoro delle neo mamme. Ma soprattutto bisogna dare ulteriori risorse agli strumenti per la conciliazione tra lavoro e famiglia perché madri e padri che mettono al mondo figli hanno il piacere di passare tempo con loro, di educarli e affiancarli nei primi passi della loro vita. Par-time, smartworking, congedi parentali pagati, asili aziendali, orari flessibili o su turni per coloro che hanno necessità particolari. In pratica evitare con ogni mezzo che si sia anche una sola donna costretta a scegliere tra la maternità e il lavoro. Molte delle misure indicate sono state implementate in diversi Paesi europei che avevano i nostri stessi tassi di natalità e i risultati sono arrivati. Tramite queste politiche la Germania in pochi anni ha portato il suo indice di fecondità a 1,53 figli per donna e la Francia con il suo generosissimo welfare segna un 1,83.

Eppure anche il più ricco dei sistemi di sostegno alla maternità non riesce, in Occidente, a condurre la popolazione al tasso di sostituzione. L’obiettivo si potrà raggiungere solo con uno scatto culturale, la narrazione sulla famiglia de cambiare, questa può e deve essere raccontata come un luogo di bellezza e dove si sperimenta la cura e la solidarietà gratuita. La società del tutto e subito, dell’essere sempre senza affanni e sacrifici, deve tornare a raccontare la forza legami che durano e che arricchiscono l’uomo nello spirito e se vogliamo essere veniali anche nel portafoglio. La Chiesa, la politica, l’associazionismo e tutta la società civile hanno davanti una sfida enorme che non permettere alcuna resa.