Rep. Centrafricana: chiude il campo M’poko, luogo simbolo del dramma della guerra civile

Piste di atterraggio affollate da maree umane, migliaia di corpi stipati fra i velivoli e tante speranze di vita martoriate dai fuochi della guerra: questo terribile scenario si palesava, non molto tempo fa, osservando il campo di M’poko, nella Repubblica Centrafricana. Un punto focale della situazione vissuta dalla popolazione civile durante quello che è stato uno dei conflitti più feroci e, allo stesso tempo, invisibili degli ultimi anni. Difficile chiamare “campo” l’assembramento di persone visto nell’aeroporto internazionale di Bangui dove, all’apice della sanguinosa guerra civile fra le forze governative e la fazione ribelle dei Seleka, hanno trovato posto un numero non inferiore a 100 mila anime, costrette a trovare un precario riparo fra i fuochi incrociati dei due schieramenti e in cerca di aiuti da parte della Comunità internazionale.

Msf: “I problemi restano”

Oggi, il luogo simbolo della crisi centrafricana è stato chiuso. Ma, secondo l’associazione umanitaria “Medici senza frontiere”, operante da circa 20 anni nello Stato dell’Africa subsahariana, l’emergenza per la popolazione è tutt’altro che finita. Abbandonato il campo, il rientro verso i centri urbani, in molti casi gravemente danneggiati, risulta per nulla facile. In alcune circostanze, addirittura non esiste un posto nel quale tornare: “Questa crisi di brutalità inaudita – ha spiegato sul sito ufficiale Msf il presidente Loris De Filippi – è passata quasi inosservata, con l’eccezione dell’immagine simbolica di M’poko: un mare di sfollati accalcati tra le carcasse degli aerei. Ora quel simbolo è scomparso, ma i problemi del paese restano”. Le oltre 20 mila persone che hanno abbandonato l’area in questione, dovranno ora affrontare condizioni di estrema difficoltà (appena 150 euro per famiglie di 6 membri), considerando che oltre metà della popolazione è costretta a contare sugli aiuti umanitari.

Dentro la tragedia

Immediata l’assistenza dei medici volontari già durante la prima fase del conflitto, quando le famiglie presenti non erano che poche decine. Con l’aggravarsi dell’emergenza, l’associazione è riuscita ad allestire persino un ospedale all’interno del campo, grazie al quale è stato possibile fornire aiuti anche a persone stipate fuori dai suoi confini, senza che, nel frattempo, fossero arrivati aiuti consistenti per fronteggiare l’enorme portata del dramma. “In questi tre anni – ha spiegato ancora De Filippi – abbiamo testimoniato orribili atrocità. Molti dei nostri colleghi locali stavano subendo il conflitto in prima persona, alcuni vivevano nel campo perché anche loro avevano perso tutto”.