Domenica delle Palme 2024: cosa troverebbe Gesù entrando a Gerusalemme

L'intervista di Interris.it a Padre Ignazio de Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell'Annunziata, la comunità fondata da don Giuseppe Dossetti

Foto di Rodolfo Quevenco da Pixabay

La Domenica delle Palme celebra l’ingresso di Gesù a Gerusalemme prima della sua Passione. Come racconta il Vangelo di Giovanni, Gesù in sella ad un puledro d’asina fu accolto da una grande folla in festa che sventolava rami di palme gridando l’Osanna, compiendo così la profezia di Zaccaria.

La Terra Santa non conosce pace, ma dal 7 ottobre scorso la situazione è divenuta drammatica. Se Gesù entrasse oggi a Gerusalemme, come troverebbe la Città Santa?

Lo abbiamo chiesto a Padre Ignazio de Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, la comunità fondata da don Giuseppe Dossetti, l’uomo che fu uno dei maggiori artefici della Costituzione italiana e che contribuì poi ai lavori del Concilio Vaticano II. Padre Ignazio ha studiato lingua araba e islam prima a Damasco, poi in Egitto. Dal 1997 vive tra la casa madre di Monte Sole – la località dell’appennino bolognese nota per la strage di Marzabotto – e le missioni della sua Comunità in Palestina e Giordania. “Ciò che mi colpisce dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme è l’elemento della gioia, dell’accoglienza da parte dei più piccoli. – ci racconta al telefono da Gerusalemme – Un’esuberanza che scandalizza i farisei, come si racconta nel Vangelo di Luca, che Gesù mette a tacere con una frase sibillina: ‘Se taceranno, grideranno le pietre’”.

L’intervista

Ma subito dopo Gesù piange su Gerusalemme.

“E’ il dolore del Signore perché la città non l’ha riconosciuto. Non è una condanna ma l’affetto per Gerusalemme. La sera del 7 ottobre noi eravamo in chiesa e sentivamo il rombo degli aerei che passavano in cielo. Mi è allora venuto in mente il finale del salmo 119 che recita ‘come pecora smarrita vado errando’. Qui assistiamo a un grande smarrimento dell’umanità”.

Com’è la situazione adesso?

“Ormai sono sei mesi di guerra. La situazione è drammatica se non tragica. I dati riportano oltre 30mila morti a Gaza ma dalle nostre fonti sappiamo che ce ne sono molti altri per fame, per mancanze di cure. Le stime sono indicibili. E’ una situazione di cui non si vede la fine. Secondo i dati di cui disponiamo, dal 1947 al 6 ottobre scorso le vittime palestinesi in tutte le guerre erano state 37mila. Adesso siamo a 30mila in sei mesi”.

Come vivono questa situazione gli israeliani?

“Per la parte ebraica il 7 ottobre è stato uno shock, un crimine mostruoso. Noi siano abituati a pensare ad Israele come uno degli eserciti più forti del mondo, con i servizi segreti migliori. Ecco improvvisamente si sono sentiti indifesi. Un’amica psicologa che lavora a Tel Aviv ci dice che nella popolazione ci sono elevati elementi traumatici ed ansiogeni”.

E i palestinesi?

“Sembra che siano in una strada senza uscita. L’occupazione dei territori delle Cisgiordania è contro il diritto internazionale, come sancito da numerose risoluzioni dell’Onu, ma Israele va avanti. Sia che i palestinesi facciano i buoni sia che facciano i cattivi le occupazioni vanno avanti”.

Molte organizzazioni della società civile israeliana sono sempre state molto attenti ai diritti di tutti ed in alcuni casi anche critici verso il loro Governo. Come vivono adesso queste realtà?

“Quella ebrea rimane una società civile viva e consapevole. Tuttavia lo shock securitario ha provocato uno schiacciamento della società israeliana verso le posizioni più radicali. Mi sembra che ci sia un consenso alla risposta militare”.

E i palestinesi cosa dicono di Hamas?

“La popolarità di Hamas è aumentata, anche nei palestinesi della Cisgiordania”.

Cosa pensa la gente della guerra?

“In realtà c’è un grande desiderio di pace, inascoltato. Ieri ero con un anziano tassista ebreo. Mi raccontava che aveva fatto la guerra dei sei giorni, quella dello Yom Kippur, il Libano. ‘La guerra non serve a niente’ mi ha detto. Oggi invece vedevo uscire i musulmani dalla Porta di Damasco [nella citta vecchia di Gerusalemme] dopo la preghiera alla moschea di al-Aqsā. Mi ha fatto tenerezza vedere tante persone che pregano la loro fede”.

Voi avete la missione nel piccolo villaggio di Ain Arik, vicino Ramallah, in Cisgiordania.

“E’ un villaggio con una forte presenza di palestinesi cristiani, una minoranza in Palestina. Qui gestiamo una scuola frequentata da 300 bambini, sia cristiani che musulmani. Il calendario scolastico prevede vacanza in occasione delle quattro feste: Natale, Pasqua, fine Ramadan e festa del Sacrificio. Inoltre si fanno tre ore di religione a settimana: gli studenti cristiani con il loro insegnante e lo stesso quelli musulmani”.

Oggi sembra che non si vedano all’orizzonte spiragli di pace.

“Noi dobbiamo guardare al di là. Noi sappiamo che la violenza non risolve nessun problema. E sappiamo anche che in questa situazione cosi drammatica si possono trovare luci di civiltà. La violenza è più evidente, ma le energie della pace nel cuore dell’uomo sono sotterranee”.